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di Gustavo Piga – 15 ottobre 2015
Sono passati due anni “fiscali” da quando il Governo Renzi si è insediato: ha avuto modo di proporre due documenti di Economia e Finanza in ogni aprile, due note di aggiornamento degli stessi a settembre e ora si prepara a portare alle Camere la seconda legge di stabilità. Il segno concreto e tangibile dell’azione di politica economica non si misura sulle parole ma sugli atti concreti e sono questi documenti che, tra mille difetti, contengono la cifra renziana fino ad oggi.
In tal senso, è ovvio che l’occhio degli esperti corra immediatamente ad analizzare le decisioni di spesa pubblica avvenute finora. Tanto più che per misurare l’impatto effettivo degli annunci, ormai ripetuti quotidianamente, di tagli della tassazione, si deve giocoforza misurarne la loro credibilità. Annunci di tagli della tassazione non credibili, ritenuti da famiglie ed imprenditori irrealistici e/o non sostenibili, sono destinati a non mobilitare consumi e investimenti come sperato. E per essere credibili i tagli delle tasse devono garantire che non verranno abbandonati nel giro di pochi anni, a seguito di un peggioramento delle finanze pubbliche. Ma, a loro volta, per che le finanze pubbliche non s’incartino c’è bisogno che dall’altro lato del libro mastro dei conti pubblici, quello delle spese, vi sia il contributo essenziale del taglio degli sprechi (la spesa cattiva) e del rilancio degli investimenti pubblici (la spesa buona): senza di questi non vi sarà sviluppo a sostenere la domanda di beni e la stabilità dei conti pubblici e il progetto governativo finirà con le gambe all’aria.
Quando si presentò ad aprile del 2014, Renzi, per il triennio 2014-2016 prevedeva un totale della spesa pubblica pari a circa 804, 818 e 832 miliardi di euro: in crescita, seppur moderata. Un anno e mezzo dopo, avendo avuto modo di esercitare le leve del comando, il Paese si ritrova con un livello si spesa per quei tre anni pari rispettivamente a 826, 831 e 840 miliardi. Maggiore? Eccome, tanto più se si considera che quando iniziò il Governo prevedeva una spesa per interessi di 82, 82 e 85 miliardi e quella realizzatasi grazie all’aiuto di Draghi è stata ben inferiore: di 75, 70 e 71 miliardi. Il resto della spesa, insomma ha sforato di circa 20 miliardi ogni anno rispetto agli annunci di inizio mandato. Non un bel modo di garantirsi una forte dose di credibilità come tagliatore di spesa: è probabile che gli operatori privati guardando a questa performance si chiedano quanto valga la pena scommettere su strategie di diminuzione della pressione fiscale che nel giro di poco tempo rischiano di essere smentite.
Ma non è solo questione di diminuire gli sprechi. C’è anche bisogno di fare più investimenti pubblici. E anche qui le cose mostrano come il Governo Renzi non abbia saputo prendere in mano le redini del Paese: per ammissione dello stessa relazione di aggiornamento al DEF appena uscito, “gli investimenti pubblici nel 2014 sono calati del 6,9%”, toccando un minimo storico clamoroso.
E’ possibile ridurre gli sprechi e spendere di più, mi direte? Certo che sì, sotto una specifica ed irrinunciabile condizione, utilizzata da tutto il mondo avanzato: la c.d. spending review. Che non è taglio della spesa a casaccio, come è stato interpretato malamente in questi anni in Italia, ma paziente e certosino lavoro volto da un lato, appunto, a diminuire la spesa cattiva (anche chiamati sprechi, che non generano produzione e valore ma solo un trasferimento dai malcapitati contribuenti a qualche imprenditore e burocrate che si arricchiscono impropriamente) e ad aumentare quella buona o quella ritenuta strategica: basti vedere l’esperienza britannica al riguardo che ha deciso di scommettere su istruzione e sanità. L’Italia si divide invece tra due partiti dell’ossimoro: quelli che credono che la “spesa buona” non esista, liberisti ad oltranza che chiedono che il settore privato faccia le cose che non sa evidentemente fare la Pubblica Amministrazione, e quelli che credono che sia la “spesa cattiva” a non esistere, collettivisti ad oltranza che accettano a malincuore (anche se non lo confesseranno mai) l’esistenza del settore privato. In realtà a studiare le realtà occidentali che funzionano, scopriremmo che 1) privato e pubblico vanno inevitabilmente a braccetto e 2) che anche realtà con livelli molto diversi di presenza del settore pubblico, come i paesi anglosassoni e i paesi scandinavi, sono accomunate da una caratteristica evidente: i loro settori pubblici sanno spendere decisamente bene i soldi dei contribuenti. Cosa che noi assolutamente non sappiamo fare, ultimo governo incluso. Come mai?
A studiare la fonte degli sprechi si finirebbe per scoprire che sono spesso più dovuti ad incompetenza che a corruzione, e che comunque le due cose vanno a braccetto: dove c’è incompetenza la corruzione vince facile, dove c’è corruzione non vi è interesse a diventare competenti. E quindi? Quindi bisogna spendere per risparmiare, questo sì un vero ossimoro, spendere per dotarsi di stazioni appaltanti competenti e professionalizzate (ma qual è quel bravo acquirente così masochista da lavorare per il pubblico quando il privato paga tre volte tanto?), spendere per pagare ricecatori universitari bravi così da generare conoscenza e sviluppo (ci siamo mai chiesti perché i nostri giovani più bravi vanno a lavorare nelle università d’oltre frontiera e non tornano, anche se lo desiderebbero ardentemente?). Una volta che si impara a spendere bene è facile, molto facile, tagliare la spesa cattiva.
Ma i numeri del Governo Renzi descritti sopra e la percezione che la spending review non sia una priorità di questo Governo lasciano intendere che il percorso scelto rimane quello di tagli a casaccio, spesso nocivi per il Paese, dettati dall’emergenza di soddisfare gli assolutamente ottusi rilievi europei, anch’essi indifferenti alla qualità della spesa e esclusivamente concentrati a raggiungere obiettivi di bilancio che, a causa della mancata crescita che queste regole generano, non vengono mai raggiunti.
Aspettiamo conun ansia un segno d’inversioen di tendenza: dalla vera spending review passa l’unica vera ripresa economica del Paese, non quella sospinta da Draghi e dal commercio mondiale che merito italiano certo non è.