di Alfredo Morganti 15 ottobre 2015
Ho letto, proprio in questi giorni, ‘Anna’ di Niccolò Ammanniti. È un romanzo dove la decomposizione la fa da padrona: dei corpi, della vita, delle relazioni sociali, delle regole, di ogni forma di economia. Ma dove, soprattutto, si raffigura in termini apocalittici la decomposizione del passato. Un virus micidiale, difatti, ha progressivamente ucciso tutti gli adulti, ed è pronto ad accanirsi con i più giovani giunti alle soglie della pubertà. Il mondo è così popolato da bambini e ragazzi abbandonati a se stessi e affamati, che in modo selvaggio, animalesco si contendono le risorse rimaste, incapaci di produrne di proprie, anche perché non c’è più elettricità, né acqua corrente, né un sapere. Dominano il saccheggio, la sopraffazione, la disperazione. Man mano che gli anni passano, muoiono i ragazzi più grandi, quelli che conoscevano il mondo dei ‘Grandi’ e che ne tramandavano la memoria, mentre crescono bambini privi di ogni riferimento al passato, che alla lunga nemmeno sanno che un passato sia mai esistito. Una completa e progressiva tabula rasa storica. Tutto è destinato a scomparire, ma prima di ogni cosa, sta già scomparendo la civiltà umana, le sue ragioni, il suo senso. La storia.
Ho pensato, leggendo, che Ammanniti ci stesse quasi proponendo una metafora della ‘rottamazione’. In fondo, il virus dà un taglio netto a tutto ciò che è esistito, a tutte le generazioni precedenti, ne cancella esistenza e significato, porta con sé un unico, prolungato e definitivo oblio delle esistenze trascorse. Ciò non è solo tagliare radici, è proprio cancellare tutto. Non il contenuto del passato, ma il passato stesso. Mi sono chiesto allora: qual è la tragedia più grande dinanzi a questi ragazzi e bambini alle prese con l’Apocalisse? Forse la mancanza di un futuro, ho pensato in prima battuta. Nessuno di loro vedrà i 15 anni, perché alle soglie dell’età adulta, difatti, il virus li colpirà mortalmente. Poi ho riflettuto con più attenzione. No, non è il futuro a mancare ai poveri bambini del romanzo di Ammanniti, non è la prospettiva o la visione di un progresso. Ma il passato, l’articolata costruzione di senso e di civiltà che il passato consegna a ogni nuova generazione, non tanto per obbligo di tradizione, quanto come l’unica effettiva risorsa dalla quale ripartire ogni volta.
Il passato, dunque. Anna, la protagonista, è alla ricerca di ‘Grandi’ sopravvissuti che possano guarire la sua malattia. È alla ricerca di ‘cura’, di esperienza, di competenza, equilibrio, di un’identità più salda, che lei non possiede ancora (e che non possiedono i ragazzi e i bambini contro cui lotta darwinianamente). Senza i ‘Grandi’ nulla è possibile. Una generazione che non può godere dell’apporto delle precedenti è perduta, vive di un’illusione autarchica (e di un terrore autarchico) che è esiziale. Anna ricorda ogni giorno la mamma che gli ha lasciato un quaderno di Cose Importanti al quale attingere in sua assenza. Ricorda anche la raccomandazione di insegnare a leggere ad Astor, il fratellino. E anche lei adesso vorrebbe fare lo stesso per lui, che degli adulti ricorda meno di lei. Ma non lo fa, perché sa che il fratello non leggerebbe mai quei fogli. La frattura è definitiva, insomma. Il taglio irrimediabile, il passato è andato perduto. Non c’è nulla di più sciocco, ho pensato, dell’enfasi posta sulle ‘rottamazioni’ e sul futuro, su cui insiste unanimemente oggi la politica meno accorta, quella più spiantata che ci governa. Non c’è nulla di più sciocco della ricerca di un ‘adesso!’ solitariamente piantato nel vuoto di storia.
(Walter Benjamin ha spiegato che le rivoluzioni si fanno per riscattare i nostri padri, e non pervasi da astratte, ideologiche visioni del futuro. C’è una memoria che spinge in noi, ci sono macerie storiche e personali che chiedono di essere ricostruite, voci lontane ma presenti che ci incitano a fare di più e meglio, a chiudere i conti con le ingiustizie, liberando le esistenze passate e presenti dal giogo. Non è storicismo. È mettere sul piatto, invece, la storia e le sue energie per ribaltare radicalmente le sofferenze presenti).