di Alfredo Morganti – 29 settembre 2015
C’è un libro scritto da Katja Petrowskaja, ‘Forse Esther’, che racconta, tra l’altro, delle stragi naziste di Babij Jar, a Kiev, compiute anche con la complicità della polizia ucraina.
Le vittime furono tra centomila e duecentomila, e “non sappiamo nemmeno quante Babij Jar ci siano state, se una oppure due” dice la scrittrice. Donne, uomini, bambini furono chiamati a raccolta nelle strade, condotti in lunghi e silenziosi cortei sino alla forra di Babij Jar, e lì uccisi a mitragliate, senza pietà. Ebrei, dapprima e soprattutto, ma, successivamente, ucraini in genere, zingari, comunisti. Tutto iniziò il 19 settembre 1941, con l’invasione nazista. Appena dieci giorni dopo i cortei e gli eccidi: “Tutti furono visti avanzare, il 29 settembre, per le strade di Kiev in quell’interminabile corteo, che li avrebbe condotti alla propria sepoltura, lungo la Bol’saja Zitormirskaja”.
Per primi furono eliminati i malati psichiatrici del vicino ospedale. Fu una specie di ground zero dell’orrore, forse perché, per i carnefici, i pazzi non possedevano neanche un’anima e quindi andavano tolti di mezzo prima di ogni altro, come una pratica burocratica, un atto dovuto, una rogna da sbrigare subito con le camere a gas mobili. Poi toccò agli ebrei. Denudati, insultati, picchiati in strada, prima di essere messi in fila davanti alla fossato di Babij Jar e mitragliati. E “i bambini gettati semplicemente sui cadaveri, seppelliti vivi, così da risparmiare le munizioni” racconta la Petrowskaja. 33.771 persone furono uccise in soli due giorni, dicono le testimonianze e le fonti storiche. Poi ci furono altre uccisioni, altre stragi, e forse si rinunciò a tenere il conto.
Altre sessantamila persone furono poi trucidate dai nazisti nel 1943, con l’Armata Rossa che incombeva alle porte di Kiev. Fu come se un’enorme ‘ruspa’ portasse via tutti: “prigionieri di guerra, partigiani, marinai della flotta di Kiev, giovani donne, altri ebrei della regione, passanti catturati in strada, tre interi campi di zingari, di sacerdoti e di quei nazionalisti ucraini che all’inizio avevano collaborato coi tedeschi per poi diventarne le vittime”. I nazisti obbligarono anche 300 prigionieri di guerra del campo di Syrez a dissotterrare i resti dei morti, a bruciarli in pile di migliaia di persone e sbriciolarne le ossa: “gli uomini furono costretti a cancellare le tracce, prima di essere a loro volta uccisi, di modo che anche chi aveva visto venisse cancellato, e alla fine non restasse più nulla: non una traccia, non un uomo, non un racconto”. E nemmeno più un numero, perché “la polvere non si può contare”. Quattordici, tuttavia, coloro che riuscirono a sfuggire al loro destino, e furono gli unici testimoni, quelli che parlarono ai processi.
Ma quello che colpisce ancora la Petroswskaja non è solo l’orrore delle stragi. Per venti anni a Babij Jar non ci fu alcuna stele a ricordare gli eccidi. Nel frattempo una fabbrica di laterizi aveva scaricato nella fossa i suoi scarti, seppellendo ancor di più corpi ed eventi. Perdurò il silenzio. Poi, racconta la scrittrice, parlò un poeta, Evgenij Evtusenko, e qualcosa cambiò: “Su Babij Jar, nessun monumento./ Un ripido pendio – un’unica lapide non toccata da scalpello./ Ho paura./ Sono vecchio, oggi,/ vecchio come il popolo ebraico./ E adesso, credo, sono/ un ebreo”. I morti cessavano di essere un sottile ricordo delle famiglie per diventare i morti di tutti. Sostakovic musicò la poesia nell’adagio della sua tredicesima sinfonia. A Kiev, tuttavia, servirono sei anni perché fosse piantata una lapide commemorativa, mentre la milizia continuava ancora a disperdere chi si recava lì il 29 settembre di ogni anno. Perché crollasse il silenzio fu necessario l’indipendenza ucraina, circa venti anni fa, a cinquanta anni e più dagli eccidi. Allora, “tutte le categorie di vittime ottennero via via il proprio monumento […] Dieci memoriali, ma nessun ricordo condiviso, e persino nel commemorare i morti la selezione si autoriproduce”.
I muri tra le persone, le etnie, le culture, i raggruppamenti sociali continuano a crescere anche se si muore tutti assieme, insomma. Sono muri tenaci, e non dobbiamo meravigliarci se ancor oggi si alzino reticolati dinanzi ai rifugiati o vengano invocate le ruspe. Piuttosto, vorrei dire a chi ne parla, che di ruspe è piena la storia, e hanno già raso milioni di vite, e ancora continuano a spianare esistenze in un mondo falcidiato di guerre e di fame. Sono le stesse ‘ruspe’ di Babij Jar, oltre settanta anni fa. Dieci memoriali distinti è come nessun memoriale, dinanzi all’umanità che in quei giorni veniva colpita IN QUANTO TALE, colpendo nella fattispecie ebrei, malati, zingari, comunisti, bambini. E persino chi si era schierato dapprincipio coi carnefici. L’orrore si abbatte su tutti, pure su chi pensa che si tratti di un problema degli ‘altri’, e che in fondo fanno anche bene a spianarli via. Finché gli ‘altri’diventano loro stessi. In un terribile cortocircuito di responsabilità e martirio che dovrebbe insegnarci qualcosa, anche se nessuno è davvero disposto a imparare lezioni così dure.
[Mi sembrava giusto ricordare oggi, proprio oggi, quelle stragi, quelle povere donne e quei pover’uomini. Ringrazio Katja Petrowskaja per come lo ha raccontato, aiutandoci a ritrovare le tracce di un evento che non può essere dimenticato. ‘Forse Esther’, il suo libro. ha vinto, quest’anno, lo Strega Europeo].