di Alfredo Morganti – 23 settembre 2015
Mi chiedevano ieri che cosa volesse dire l’affermazione ‘oggi non c’è più la politica’, che si sente pronunciare sempre più diffusamente anche a sinistra. Ho provato a spiegare che l’assenza della politica la si misura per contrasto, in negativo, dalla presenza incombente e massiccia della tecnica. Che non è affatto la tecnologia e non è costituita di dispositivi materialmente tecnologici. Semmai essa è pensiero, e in particolare l’ideologia che oggi ha messo a tacere tutte le altre. L’ultima ideologia, potremmo dire parafrasando Nietzsche. In che consiste la tecnica? Nell’idea che il concerto delle opinioni, il gioco articolato e complesso della democrazia, la partecipazione come bene essenziale e la rappresentanza siano zavorre, un peso sempre più insostenibile per l’efficienza finale del sistema. E che si tratti, invece, di affidarsi a tecnici capaci di trovare in breve tempo e senza troppe chiacchiere, nel chiuso dei propri consessi e delle proprie stanze dei bottoni, ‘la’ soluzione giusta al problema, quella dirimente, l’unica davvero efficace (perché la soluzione tecnica vera ed adeguata è una sola, così come 1+1 fa 2 e non 3). Ovviamente questa soluzione è alla portata solo di chi è fuori dalla ‘palude’, ha un ruolo super partes, o presunto tale, un terzista, un uomo di moderate opinioni, meglio se borghese, ancora di più se è uno scienziato, un’economista, un professore. Ma va anche bene se quel professore si pone in seconda fila ma alle dirette dipendenze del politico populista, che oggi si rappresenta sempre più come uomo del ‘fare’ e come uomo con la soluzione a portata di mano, purché si ‘lavori’ e si ‘remi’ tutti in un’unica (anch’essa) direzione.
Ma la tecnica, dicevamo, è un’ideologia come tante altre, è una falsa coscienza, nonostante si presenti come vera, vincente, definitiva, unificante. Nonostante oggi garantisca la conservazione dello status quo e del mondo cresciuto in questi venti anni e passa di neoliberismo. La politica, al contrario, soprattutto se è grande politica, apre linee di demarcazione, crea fronti opposti, scatena la battaglia, presenta soluzioni diverse in merito alle quali si discute, si dibatte, si media, ma soprattutto si lotta. La politica apre abissi, non li sommerge. Mostra in termini lampanti che la soluzione non è affatto unica, che ogni fronte in campo ha una sua soluzione da proporre e per la quale è pronto a battersi. Altro che chiacchiera. La tecnica, al contrario, lascia in campo solo la soluzione del vincente, quella di chi oggi tiene i fili e ha potere, spacciandola per la sola vera, la sola efficace. La crisi della politica è, così, il trionfo dell’ideologia e, dunque, della tecnica in quanto ideologia che si mostra sfacciatamente non-ideologica e, anzi, si ammanta pure di ‘scientificità’. Dentro la tecnica c’è la comunicazione, c’è l’economia (segnatamente la finanza), c’è l’organizzazione scientifico-manageriale, c’è una concezione sempre più algebrica, numerica, cifrata, tabellare e ‘calcolata’ della realtà. C’è anche il caos, quando serve però a nascondere la macchina del potere. C’è una sociologia che ci riduce a semplici ‘addetti’. Dentro la tecnica, come incapsulata, c’è la sub ideologia del ‘fare’, per cui si può ‘fare’, appunto, senza la necessità di doverne discuterne, si può ‘operare’ nell’assoluta vuotezza del pensiero, si può calcolare solo pigiando un tasto del PC, ché al resto ‘pensa’ lui, il dispositivo. La tecnica è quel che resta alla fine del pensiero, quando si è dimenticato il senso, persino quello specifico del nostro essere sociale. Quando davanti a noi non vi sono più avversari, e questi non appaiono più nemmeno tali, ma solo tutti italiani che vogliono uniti il bene del Paese! E chi non si presta è un ‘nemico interno’, diceva la Tatcher.
Che fare? Tutto, se volete, ma non attendere che trascorra la nottata. Non si assecondino i tempi, non si ceda alla sirena della comunicazione messa al posto della politica, non ci si fidi ciecamente dei rulli di dati che scorrono sui display, delle rappresentazioni statistiche, non ci si abbandoni alle tabelle, non si resti invischiati nella digitalizzazione (per la quale la verità è 0-I, sì-no, bianco-nero). Anche i migliori intenti ‘tecnici’ a sinistra finiscono rappresentati in un affresco privo di cornice. Ecco, la politica è proprio la cornice che manca: è l’inquadramento storico, è l’analisi della fase, dei rapporti di forza, è l’idea che un nemico ci sia sempre, e che non siamo in un laboratorio asettico, ma in una società in cui il male è merce quotidiana e c’è sempre, comunque, pure se camuffata, una guerra civile serpeggiante, dove la cultura (umanistica, non solo scientifica) resta lo strumento indispensabile a capire, mentre la sbiadita ignoranza della massa etero diretta è il viatico finale per l’inferno. Solo in politica la cornice vale più del quadro e, spesso, lo riscatta. Cercare nello ‘specialismo’ senza politica una risposta efficace alle ingiustizie attuali, pensare che bastino una ricetta accademica, una ‘competenza’, un’abilità per quanto sopraffina, o ritenere che un’equazione venuta bene è segno di una riscossa politica è davvero ingenuo. Che il dirigente sia ‘specialista+politico’ lo diceva Gramsci e dovremmo ribadirlo sempre. Perdere il senso della storia che è in nuce nella politica (anche quando la stessa rappresentazione storica è soggetta a una crisi devastante) e ritenere che tutto sia attimo, ‘punto’, istante, presente, evento attuale anche se seriale, significa condannarsi non alla sconfitta, che in politica ci può stare, ma alla dannazione. Solo in presenza di un’idea della storia, di una visione storica, di un senso forte del passato e del suo riscatto, l’evento, l’istante, il punto diventano rivoluzionari. Sovvertono gli assetti di potere.
Walter Benjamin, che certo non era un riformista, diceva che non si fa la rivoluzione (e nemmeno più modeste riforme, aggiungo io) se non per riscattare chi ci ha preceduto. Non i figli o i nipoti, non il futuro, non l’avvenire o il progresso, ma i padri, il passato violato, le sue macerie e i suoi tormenti. È questo il paradosso più bello e più fruttuoso: andare avanti, ma consapevoli che le macerie sono dietro. L’energia per il riscatto è alle tue spalle, e se non ti adoperi a risanare quelle macerie e a salvare dapprima le generazioni dei padri, queste sommergeranno definitivamente anche il tuo presente, non solo il tuo vago e ipotetico futuro. È la ‘salvezza’ dei padri che salva i figli, ditelo agli sciocchi rottamatori. La tecnica no, la tecnica astrae il senso del presente, lo matematizza, e ti dice solo ‘futuro’, ti dice solo ‘numeri’, ti dice solo economia, bilanci, tabelle, ti spiega che la storia non c’è, e se ci fosse andrebbe ‘rottamata’, novecento compreso. E invece le passioni risorgono sempre da lì, da quello che chiamiamo passato, un passato irrisolto, da salvare con un odierno scatto istantaneo. Mio padre resta la mia passione più grande anche se fossi costretto a farne a meno. Ucciderlo, direbbe Freud. E con lei, con la storia, dico io, rottameremmo anche il senso che cerchiamo, quello delle nostre speranze. E politica è l’unico sinonimo di speranza che io conosca. Non certo il calcolo accademico. Si torni a pensarlo, dunque, quel senso.
(Scusate la prolissità, ma se scatta la passione scatta anche la tastiera Emoticon smile )