Su «La Stampa» del 5 – 6 febbraio 1920 apparve in prima pagina un articolo senza firma dal titolo Al potere!, dal quale merita trarre alcuni passaggi.
“[…] Noi, per parte nostra, non vediamo la forza per conquistare il potere, quando continuino a operare isolati, in nessun gruppo borghese, in nessuna categoria proletaria. Ma dove i massimalisti, dal negare tale forza agli altri e dal non riconoscerla in sé, si mortificano in un ascetico isolamento nell’attesa mistica del grande avvento che la conceda tutta a loro; noi dal non vederla particolarmente in nessuno tiriamo a fil di logica la sola conseguenza che l’uomo politico ne può dedurre: bisogna unirsi per lavorare insieme. Non è dunque paura del socialismo che ci fa parlare. La salita dei socialisti al potere ci atterrisce così poco, che se riconoscessimo in essi la forza per attuare il grandioso programma di ricostruzione e di rinnovamento che ci brilla dinanzi, saremmo lieti del loro salire. Perché noi vogliamo le stesse cose ch’essi vogliono. Le loro grandi riforme sono le nostre riforme. Essi vogliono abbattuto il militarismo, risanata l’Europa, ricostruita la ricchezza. Anche noi lo vogliamo. Nessuna riforma ci spaventa. Nemmeno le più ardite che tocchino il capitale. Vogliamo solo che non si distrugga la ricchezza e la fonte eterna generatrice della ricchezza. Il capitale è per la collettività. Ma poiché per vivificarne la collettività bisogna prima crearlo, noi cerchiamo che non sia soppressa la più efficace di tutte le molle: l’interesse privato. Lo Stato – solo che voglia – ha poi modo di far ritornare, in un breve giro di generazioni, tutta alla società la ricchezza che l’individuo con il suo lavoro e il suo risparmio ha creato ed accumulato. Hanno i socialisti in questo momento storico la forza per salire ai potere? Per confessione unanime di essi stessi, e per constatazione universale, da soli no. Consigliar pertanto di salire al potere per attuare le più audaci riforme e per salvare l’Europa, è una mera predica, se dalla necessità del salire chi predica così bene non ne deriva anche l’ultima fatale conseguenza: la necessità di collaborare. […] Dunque, collaborare. Collaborare con chi? Evidentemente con gli uomini e con i gruppi borghesi più vicini al proletariato. Con quelli il cui passato dà garanzia del loro avvenire. Non certo con gli amici d’occasione. Sono numerosi in questo momento. Solo che si accostano oggi per tradire domani. Ma chi vi infonde fiducia per la sua opera e per il suo pensiero della sua vicinanza con voi, della spiritual sua comunione con voi, questi non solo ha diritto, ma deve collaborare con voi, come con tutti gli amici vostri, onorevole Treves. Questi tali non diciamo di essere noi, e tanto meno noi soli. Asseveriamo soltanto che tali gruppi borghesi ci sono. Nessuna visione politica più falsa e più sterile che ridurre tutti coloro che non sono proletari allo stesso denominatore. Ora se tutti coloro che non sono proletari non si possono accomunare sotto il medesimo epiteto; se anzi molti gruppi borghesi coltivano le stesse idealità e proseguono le stesse riforme che desiderano tutti i proletari e vogliono moltissimi socialisti; e se, d’altra parte, nessuno di codesti gruppi, borghesi o proletari, saprebbe da solo attuare ciò che vuole, la logica e l’interesse portano inesorabilmente codeste volontà e codeste forze all’unione per l’intento comune. Sarebbe il più dannoso e il più spaventoso degli assurdi che, mentre l’Europa è un deserto, mentre l’Italia è una rovina e tutti stiamo per essere travolti, un pregiudizio teoretico – e soltanto esso – ci facesse rinunciare a far catena delle mani per salvarci tutti. Per il miraggio di una trasformazione completa e subitanea della società che noi tutti – noi ai pari di voi – sappiamo che non avverrà mai in tale modo, per un tale miraggio sarebbe non solo antiumano, ma pazzesco non stendere le mani. L’esempio della Russia e dell’Ungheria deve pure insegnare qualche cosa. Non sappiamo quali ammaestramenti politici e quali deduzioni tattiche l’on. Morgari abbia portato dal suo viaggio in Ungheria. Non certo però egli deve avere rafforzato la sua coscienza nella possibilità storica del comunismo. Se infatti avesse rassodato tale persuasione, lo avrebbe subito detto. Se tace è perché deve tacere. Tace perché la visione di dolori e di mali che ha negli occhi ha rovesciato le sue credenze, e perché egli ha acquistato la certezza che in Italia, come in Ungheria, come in tutta Europa, il comunismo, nel momento storico che attraversiamo, non potrebbe inaugurare i suoi esperimenti se non accumulando rovine su rovine. Qui è il dilemma in che si dibattono i massimalisti. Dilemma che diventa tragico per gli uomini di coscienza e di esperienza come l’on. Morgari. O i massimalisti, nella consapevolezza di non poter attuare il proprio programma, s’accontentano di predicare, e allora s’addormentano nell’inazione; o, nell’insofferenza del presente passano all’azione, e allora per dar vita al proprio sogno seminano stragi. Nell’un caso e nell’altro non escono dal male, anzi lo rendono sempre più grave. Ma il proletariato, che non è i massimalisti e nemmeno i rivoluzionari, ma è semplicemente uomini che spasimano della situazione presente, il proletariato non vuole aggravi sulle sue spalle. I massimalisti che si pascono di illusioni possono attendere; il proletariato che vive di realtà vuole a tutti i costi essere alleggerito dai suoi mali. Non è la prima volta che i monaci di una dottrina schiacciano i loro fratelli per amore di essa; ma il proletariato non ha nessuna voglia di farsi schiacciare per il trionfo del monachismo massimalista. Nel suo profondo realismo il proletariato vede nettamente come la ricostruzione dell’Europa ha tendenze e forme socialistiche. Tendenze e forme che realizzano quello che del socialismo è storicamente attuabile. Il proletariato sente – sia pur in confuso – ch’esso ha una grande opera storica da compire. Un’opera che solo non può compiere, ma che non per ciò è meno grande e meno sua, e che non per ciò egli si rifiuta di compiere. L’opere gigantesca di Cavour e di Bismarck – per citare i due atleti della storia moderna – impallidisce e quasi vien meno dinanzi allo splendore e alla grandezza di questa opera. Cavour e Bismarck condussero due nazioni allo sbocco ove tutto un movimento storico le portava. Le parti più progredite del proletariato con i gruppi più sani della borghesia devono ora ricostruire, ciascuno la propria nazione e tutti l’Europa, sopra una universalità di distruzione. Comprendiamo tutte le passioni politiche, spieghiamo tutte le intransigenze dottrinali, ma mentre milioni di uomini tendono le braccia per essere salvati, lasciarli morire perché la loro salvazione potrebbe riuscire in parte diversa dalla forma che noi vorremmo loro dare, è di una tragicità che confina con la pazzia e con il delitto. Il socialismo non può essere che la progressiva creazione dei socialisti. Cominciate dunque con il creare. Creare sì su una direttiva che meni ad una meta; ma giorno per giorno, ora per ora, creare. Tutto ciò ch’è concreta creazione noi lo accettiamo come voi, lo vogliamo come voi. E non c’importa se la somma di codeste creazioni porti, alla meta vostra. Porterà forse anche più lontano che voi non vediate, ed anche più alto che voi non tendiate. Tanto meglio per l’umanità se potrà arrivare più presto così lontano e così in alto. Certo però per arrivare bisogna camminare. E noi vogliamo che l’umanità non perda il suo tempo in chiacchiere, ma cammini. Noi sentiamo al pari di voi tutta la bellezza e tutta la grandezza di questo nostro non miraggio utopistico ma reale sforzo politico. Idealisti, noi vogliamo vivere ed operare nella realtà. Solo nella realtà lo sforzo politico è utile. E solo perché è veramente utile è nobile. Risanare l’Italia[1] ed avviarsi alla federazione europea è non meno alto che attuare qualunque sogno più generoso. Né comprendiamo come il socialismo si possa attuare senza risanamento delle varie nazioni e senza federazione europea. C’è da liberare il paese da questo immane debito di guerra che gli grava addosso e lo schiaccia. Né d’altra parte redenzione finanziaria può avvenire se prima non si libera il paese da quel gruppo criminoso di uomini che, senza alcuna preparazione e senza la più lontana previsione della più piccola eventualità politica, hanno, nel maggio del 1915, violentemente gettata la patria nell’incendio della guerra europea. Quegli uomini dei quali il cambio con l’America a 336 e a 298 – suprema irrisione! – con la Spagna rappresenta nella sua nudità numerica la delittuosa follia. C’è da costringere i fornitori parassiti e tutti i lucratori immondi a restituire il denaro insanguinato che hanno smunto al popolo italiano. C’è da far discendere agli umili e ai diseredati della vita tanto denaro che stagna nei forzieri o si spreca nelle futilità. Un problema edile da risolvere, e un demanio elettrico nazionale da costruire, perché ogni uomo che lavora abbia una casa ed ogni lavoro possa utilmente essere attivato. Milioni e milioni d’analfabeti aspettano da noi luce di cultura e di vita spirituale; milioni e milioni d’operai e di contadini attendono scuole che li addestrino a rendere largamente proficua la loro fatica. Le terre del Mezzogiorno chiedono d’essere redente dalla malaria e dallo squallore che le disertano; migliaia e migliaia di braccia vogliono dall’impigrimento della caserma essere restituite al lavoro fecondo. Economie profonde, riforme radicali devono essere tentate in tutti i servizi della vita civile; nuovi servizi vogliono essere assunti, assetti economici nuovi hanno ad essere praticati. Questo all’interno. Ma poiché l’Italia non può assolutamente risanare i propri danni se non si intende con le altre nazioni doloranti come lei, c’è tutta una politica nuova, proletaria ed umana, da attivare. Intese con tutti i popoli vinti, avviamenti economici con la Russia, accordi con tutte le nazioni per domare il militarismo nei tentativi suoi disperati di rivincita e sopraffazione. Le classi militaristiche e imperialistiche lavorano attivamente in ogni luogo alla propria riscossa. Profittano di ogni errore avversario, speculano su ogni delusione. Combattono le riforme perché se ne sentono debellate, sperano nella rivoluzione e la favoriscono perché sanno che la stanchezza civile finirà con l’assicurare loro il potere[2]. Questa la realtà dentro alla quale viviamo e dobbiamo operare. Mai la storia s’è offerta a un partito più favorevole perché egli introduca in essa le proprie modificazioni, di quanto l’ora presente si volge ai socialisti. I pregiudizi teoretici e le fantasie romantiche li terranno fuori dalla realtà e impediranno loro di lavorare o li spingeranno a moti inconsulti e rovinosi? Vuol dire che saranno vinti dalla storia anch’essi come sempre sono stati vinti i partiti e le classi che non ne hanno colto l’attimo propizio. Il possente governo rinnovatore d’Italia – possente per la volontà degli uomini e per la forza che loro verrebbe dalle moltitudini seguaci – non si costituirà. Mancherà al paese quel senso di equilibrio e di stabilità senza del quale le moltitudini lavoratrici – proletarie e borghesi – non si accingono ai faticosi e lunghi, sebbene redditizi, lavori di ricostruzione. E continuerà a danno di tutti la mediocre opera burocratica di piccoli governi e piccoli parlamenti vivacchianti alla giornata. Pure il paese si ricomporrà lo stesso. Soltanto che quanto si poteva creare nel giro di pochi anni, richiederà dei lustri. Ma la storia come domanda già conto alle classi militaristiche e imperialistiche d’avere, per le loro passioni e i loro pregiudizi, disertato l’Europa, chiederà un giorno non meno terribile conto ai socialisti di non averla saputa ricreare. Più anzi: di averne per preconcetti dottrinali e per ubbie sentimentali impedito la ricostruzione. E più severo di tutti ne chiederà ai socialisti conto il proletariato, da codesta negazione atrocemente tradito”.
Il 15 febbraio 1920 apparve, sempre sulla prima pagina de «La Stampa», un secondo articolo senza firma dal titolo La bacchetta magica. In esso si prendeva spunto dalla risposta dell’«Avanti!»[3] al suo precedente articolo Al potere! Merita riportarne alcuni passaggi:
“L’«Avanti!» risponde al nostro articolo Al potere! con una dissertazione filosofica e sociologica sulle classi in Italia e sulla funzione del proletariato operaio. Ci eravamo sforzati di non uscire pur con una frase, con una sola parola dalla realtà. Avevamo derivato le nostre osservazioni da un esame obiettivo della realtà; le nostre proposte erano tutte politiche e perciò concrete. Per risponderci l’«Avanti!» fa, invece, delle proprie colonne una Università popolare. Giornale politico, e perciò vivente d’attualità, non lo possiamo seguire su codesto terreno. […] Nel nostro articolo Al potere! avevamo tentato di presentare alla meditazione del popolo italiano la gravità della situazione presente, mettere in luce i bisogni urgenti, additare i ripari possibili a tanti mali, fare proposte concrete per ogni ordine di problemi. E dalle necessità della situazione sempre più incalzanti era dedotta non soltanto la convenienza ma l’imperiosa necessità per il partito socialista di collaborare insieme con altre categorie del popolo italiano alla trasformazione delle condizioni d’Italia, ove esso vive ed opera, e con ciò alla preparazione d’una nuova e migliore forma di società. Lavoro immane – dicevamo – che basterebbe a esaurire le forze d’almeno un paio di generazioni. Ora per gli scrittori dell’«Avanti!» tutte codeste sono chiacchiere di borghesi che vogliono ingannare il proletariato. Il proletariato, o meglio la classe operaia delle grandi città, ai mali della guerra non ha che un rimedio. Ma rimedio sicuro. Impadronirsi delle fabbriche e delle banche, scatenare la guerra civile nelle campagne. […] La fede non ha sempre fatto miracoli? E la fede dei nuovi Mosé conducenti attraverso al Mar rosso della guerra civile la classe operaia alla terra promessa del comunismo, non è meno grande di quella che infiammò l’antico duce del popolo ebreo. È un fenomeno psicologico curioso, che sarà un giorno per gli storici oggetto di studio interessante. Giovani colti, nutriti di buona filosofia tedesca e perciò nemici di ogni astrazione, sotto la suggestione della grande rivoluzione russa, si sono creati un mito, ne sono rimasti ossessionati, e non pensano e non scrivono che sotto la sua taumaturgica potenza. Vero è però che se la rivoluzione è un mito, le rivoluzioni sono un fatto storico. E correndo dietro alla rivoluzione quei bravi giovani hanno appunto scordato che cosa sarebbe la rivoluzione italiana. […] Certo dopo qualche anno l’Italia si rimetterebbe dalla scossa come con lungi anni si rimetterà la Russia. La «dittatura del proletariato», diventando dittatura di «singole persone», abolendo, come ha fatto in Russia, il «controllo operaio» – supposto che trovi anche tra noi un gigante come Lenin – restituirebbe nuovamente la classe operaia e tutto il popolo al lavoro; […] la bacchetta magica della rivoluzione comunistica è magica solo nella illusione dei suoi scrittori. Ogni problema vuol essere studiato, affrontato, risolto. Non c’è una soluzione generale per tutti. Gli incolti, ma non gli scrittori dell’«Avanti!», lo possono credere. E gli operai appena illuminati scrollano il capo e sorridono. E si domandano con il vecchio Kautsky – che essi hanno imparato a conoscere come il più puro e più autorevole rappresentante del socialismo internazionale – si domandano se il proletariato russo abbia sotto la Repubblica sovietistica ottenuto un numero maggiore di conquiste pratiche e reali – e non di decreti – di quello ch’egli avrebbe conseguito sotto la Assemblea Costituente, nella quale, come nei Soviety, sarebbero prevalsi i socialisti, sebbene di una sfumatura diversa. Gli operai man mano che salgono per condizione economica e per cultura, acquistano una visione realistica della vita, si rendono conto della necessità delle riforme, degli interessi contro cui esse urtano e delle forze che sono necessarie per attuarle. Ora un operaio che abbia letto il nostro articolo Al potere!, sapendo della campagna che noi abbiamo fatto, molto più fortemente e con ben altri documenti che l’«Avanti!», contro i fornitori dello Stato; sapendo della proposta che primi lanciammo, e più ardentemente di ogni altro sostenemmo, di ritogliere a chi ha guadagnato dalla guerra tutto ciò che egli ha smunto al dolore del popolo italiano; sapendo delle riforme tributarie che abbiamo sostenuto per il tasso e la diminuzione dei capitali, come crederà sul serio che il nostro grido d’allarme sul pericolo dello Stato sia stato dato perché:
«è in pericolo il borsellino delle clientele giolittiane, è in pericolo il potere degli industriali politicanti e insaziabili?»
Gli industriali politicanti ed insaziabili sono lieti che gli scrittori dell’«Avanti!» menino il can per l’aia e trastullino il proletariato con il miraggio della rivoluzione. Quando questa verrà, se verrà e vincerà, pagheranno; per intanto essi godono. E non li spaventa che una cosa sola: quelle riforme che con la tattica dell’«Avanti!» non si attueranno mai. Si accontenterà di tale tattica il proletariato?”
[1] Questo tema sarebbe apparso più volte nei discorsi di Turati (infra).
[2] Questa lucidità di analisi nel campo liberale, che fa il paio con quella dei socialisti riformisti, lascia molta perplessità sulle dinamiche politiche che portarono all’autunno del 1922. In altre parole: come poterono i liberali giolittiani dimenticare il loro nemico, cioè le forze “militaristiche e imperialistiche”, ossia il nazionalismo eversore, ed addirittura allearsi con esso (nelle politiche del 1921), pur di scongiurare una rivoluzione massimalista, poco più che parolaia?
[3] L’autore dell’articolo dell’«Avanti!» era Antonio Gramsci.