Fonte: Il Fatto Quotidiano
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di Gianni Barbacetto da Il Fatto Quotidiano 18 marzo 2015
Bonsignore, da mani pulite all’affare Orte-Mestre
Vito Bonsignore ha sette vite, come i gatti. È passato dalla Prima Repubblica, dove faceva il politico, alla Seconda, dove è diventato anche banchiere (Carige) e imprenditore (autostrade). L’inchiesta di Firenze sul “Sistema” di Ercole Incalza e soci lo fotografa coinvolto in una vicenda che ha a che fare con i lavori dell’autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre, “grande opera”, scrive il giudice, “di cui Incalza ha la responsabilità procedimentale quale capo della Struttura Tecnica di Missione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti”.
Sono circa 400 chilometri di asfalto che attraversano cinque regioni (Lazio, Umbria, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto) e che vale quasi 10 miliardi di euro, quattro in più di quelli preventivati per il Ponte sullo Stretto. Una grande opera nata più di dieci anni fa con la Legge Obiettivo del governo Berlusconi e finita sotto le amorose cure della trinità Ercole Incalza-Maurizio Lupi-Vito Bonsignore.
Proprio per la Orte-Mestre oggi Bonsignore è indagato per induzione (la vecchia concussione), ma l’avviso di garanzia non deve avergli fatto troppa impressione, vista la sua lunga storia. È restato un centauro, mezzo politico e mezzo imprenditore, e nella sua vita ne ha viste tante. Quando era solo un uomo di partito, aveva sposato la Dc ed era diventato, lui siciliano, il proconsole di Giulio Andreotti a Torino.
Per i suoi rapporti mai interrotti con la “famiglia politica più inquinata” dell’isola (la definizione è del generale Carlo Alberto dalla Chiesa) subì quelle che in Sicilia vengono chiamate “mascariate”, chiacchiere velenose, schizzi di fango, ma non si scompose. Incassò senza batter ciglio anche una condanna definitiva a 2 anni per concorso in tentata corruzione, abuso e turbativa d’asta: in relazione a un appalto per l’ospedale di Asti, uno dei capitoli piemontesi di Tangentopoli.
Poi rischiò di essere incastrato da un vecchio compagno di scorribande, Alberto Mario Zamorani, amministratore delegato di Metropolis, la società creata nei primi anni Novanta dall’amministratore straordinario delle Ferrovie dello Stato, Lorenzo Necci, per lo sfruttamento e la valorizzazione del ricchissimo patrimonio immobiliare delle Fs (8 milioni di metri quadri di terreni da liberare da rotaie e traversine e da edificare, con investimenti previsti per 20 mila miliardi di lire).
Quando venne arrestato da Antonio Di Pietro e dal pool di Mani pulite, nel 1992, Zamorani raccontò – tra le mille storie di Tangentopoli di cui era a conoscenza – di una sontuosa scatola di cioccolatini portata all’onorevole Vito Bonsignore in piazza Montecitorio, davanti alla Camera. Non c’erano cioccolatini, in quella grande scatola, eppure Bonsignore non restò deluso, poiché erano stati rimpiazzati con banconote per un centinaio di milioni di lire. La storia restò appesa alle sole parole di Zamorani e non ebbe conseguenze giudiziarie.
Il tempo di archiviare la Prima Repubblica e passare alla Seconda, ed ecco riemergere un Vito Bonsignore nuovo di zecca. Vita nuova, nuovo partito (l’Udc), nuova elezione (al Parlamento europeo) e soprattutto nuove attività. La politica si fa direttamente affari: si butta a capofitto nella banca Carige, s’impegna nelle autostrade, nell’immobiliare, nelle costruzioni.
Nel 2005 entra da par suo nella partita dei “furbetti del quartierino”. Compra 2,7 milioni di azioni Antonveneta, mentre la banca è sotto scalata da parte di Gianpiero Fiorani, il banchiere della Popolare di Lodi che vuole strappare la banca di Padova agli olandesi di Abn-Amro. Nell’altra scalata, quella di Bnl, mette insieme un bel pacchetto del 2 per cento e si associa con il “contropatto” che si oppone alla conquista da parte dei baschi del Banco di Bilbao.
La compagnia con cui si mette è quella dei “furbetti” schierati con Fiorani e con l’allora governatore di Bankitalia, il pio Antonio Fazio: ci sono i bresciani Emilio Gnutti ed Ettore e Tiberio Lonati, ci sono i ras della “razza mattona” Stefano Ricucci, Danilo Coppola e Giuseppe Statuto, c’è il padre padrone di Unipol Gianni Consorte. Una compagnia bipartisan, destra-sinistra, pronta a celebrare una silenziosa bicamerale degli affari. Antonveneta, a destra, doveva andare a Fiorani, Bnl, a sinistra, a Consorte.
Ricucci, Coppola e Statuto, insieme al più solido Gaetano Caltagirone, vendono le loro quote di Bnl al “furbetto rosso”. Per convincere anche Bonsignore, scende in campo un banchiere d’affari molto particolare: Massimo D’Alema. Che poi, il 14 luglio 2005, telefona a Consorte: “È venuto a trovarmi Vito Bonsignore… Voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli hai chiesto di fare, oppure no (ridacchia)… Che voleva altre cose, diciamo… a latere su un tavolo politico… Ti volevo informare che io ho… ho regolato da parte mia”.
È fatta. Bonsignore vende per poi riscuotere “a latere, su un tavolo politico” ciò che D’Alema deve “regolare”. Il “contropatto” si scioglie e passa a Consorte il suo 26 per cento a 2,7 euro ad azione. Incassa oltre 2 miliardi di euro, portando a casa plusvalenze da favola: 1,2 miliardi. La quota di Bonsignore è 180 milioni. Tre anni dopo, lo beccano con un conto corrente da 5,5 milioni di euro in Liechtenstein. Il suo nome appare nella lista degli italiani con conti correnti nel paradiso fiscale. Ma i suoi sono “beni all’estero regolarmente posseduti”. Ora la sua grande avventura era la Orte-Mestre. Ma la trinità Incalza-Lupi-Bonsignore è finita sotto la lente dei magistrati di Firenze.