Lavoro, la “restaurazione tolemaica” di Renzi

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Claudio Conti
Fonte: Contropiano.org
Url fonte: http://contropiano.org/articoli/item/28283

di Claudio Conti – 25 dicembre 2014

La macchina comunicativa che ha prodotto Renzi ha sfornato un format che comincia a essere stantio: chiamare con parole “positive” decisioni (“riforme”) assolutamente negative e reazionarie. Ieri, vigilia di Natale, deve esser sembrato un colpo di genio definire “rivoluzione copernicana” la restaurazione padronale sul lavoro. Come se un astronomo stabilisse che il sistema tolemaico è un “passo avanti verso la modernità”.

Ci rendiamo conto che anche al governo non devono esser molti quelli capaci di districarsi tra Tolomeo e Copernico (e devono esser molti i democristiani con poltrona che ancora stanno maledicendo Galileo e quell’incomprensibile Einstein), ma  lo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” approvato ieri è un autentico insulto al povero Copernico, oltre che un crimine contro l’intero mondo del lavoro.

Per illustrarne i meccanismi – in attesa della disamina assai più dettagliata che forniranno i giuslavoristi – conviene analizzarlo punto per punto, in modo da non annegare le tantissime novità negative in un giudizio troppo sintetico e generico. Avvertendo, naturalmente, che questo è ancora uno “schema di decreto”, non il testo definitivo. C’è insomma ancora molto spazio per sorprese, cambiamenti, peggioramenti (anche se sembra difficile, questo governo è capace di tutto).

Art. 1 – Campo di applicazione.

Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto.

Nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni del presente decreto.

Tutta la disciplina “innovativa” si applica alle assunzioni effettuate dal primo gennaio 2015. A Costituzione vigente, infatti, non era proprio possibile imporre norme retroattive peggiorative, ovvero l’abolizione di diritti acquisiti per i lavoratori assunti in epoca precedente all’entrata in vigore del “jobs act”. Il governo avrebbe rischiato di esporre le amatissime imprese al pericolo di vedersi sommergere da cause sicuramente perse in partenza.

La soluzione scelta per distruggere le tutele dei lavoratori è quindi la solita: viene creato un doppio regime, una divisione del mondo del lavoro del tutto uguale a quella introdotta dal “pacchetto Treu”, nel 1997. Allora venne legalizzato un “mondo del lavoro precario” al fianco di uno presuntamente “stabile”, creando al tempo stesso una criminale “guerra tra poveri” – cui ha stupidamente offerto il fianco una parte preistorica della sinistra antagonista – basata su una doppia quanto falsa contrapposizione: “giovani/vecchi” e “precari/garantiti”: Formula che ha avuto successo, purtroppo, e quindi la Renzi machine ha ritenuto di poterla replicare.

Ma anche questo deve essere apparso troppo poco per assicurare alle aziende un potere di ricatto verso tutti i lavoratori. E dunque il secondo capoverso si preoccupa di conferire ad ogni singolo padrone il potere di “riunificare” i due mercati del lavoro al livello più basso per tutti. Basterà che “integri” anche per i nuovi assunti i due citati commi dell’art. 18 (che riguardano solo l'”impugnazione” della decisione di un giudice) e il gioco sarà fatto: anche i lavoratori “garantiti” non lo saranno più. Egualianza assicurata!! Tutti sotto ricatto…

Art. 2 – Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale.

Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

Questo comma salvaguarda la “reintegra” soltanto nei casi di licenziamento discriminatorio (sesso, etnia, religione, ecc), peraltro vietato dalla Costituzione. Quindi non ha nulla a che fare con tutte le altre casistiche fin qui coperte dall’art. 18. Lo stesso si può dire del licenziamento comunicato oralmente, per ovvia inverificabilità della congruità delle “motivazioni” addette dal datore di lavoro. Si tratta insomma di due casi di fatto sottratti a qualsiasi modifica legislativa.

Con la pronuncia di cui al comma 1, il giudice condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l’inefficacia, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al comma 2, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

Questi due commi, di conseguenza, si limitano a riconoscere la facoltà del singolo lavoratore di scegliere una soluzione diversa dal reintegro sul posto di lavoro.

Art. 3 – Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa.

Salvo quanto disposto dal comma 2 del presente articolo, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lett. c, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all’articolo 2, comma 3.

La disciplina di cui al comma 2 trova applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68.

Al licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 1 non trova applicazione l’articolo 7 della legge n. 604 del 1966.

L’art. 3 è il cuore della “restaurazione tolemaica” renziana. Gli articoli successivi, infatti, definiscono dettagli secondari, procedurali, comunque indirizzati a favorire le decisioni aziendali (si veda l’insistenza sulla “conciliazione” in luogo della causa di lavoro). In linguaggio corrente, senza tecnicismi giuridici, viene cancellata la “reintegra” sul posto di lavoro in tutti i casi di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo. E’ opportuno sottolineare che stiamo parlando di licenziamenti arbitrari, “politici” in senso stretto; ovvero di tutti quei casi di licenziamento in cui il padrone non può addurre alcun “rimprovero” al lavoratore. Solo un falsario o un cretino può far finta di non vedere che l’unica ragione per un licenziamento di questo genere è la volontà dello stesso padrone di non vedersi più tra i piedi un essere umano dotato di ragione, capace di far presenti i suoi diritti (salariali, di sicurezza sul lavoro, ecc). Insomma uno che fa attività sindacale e/o addirittura a volte sciopera.

Il giudice che ravvisi l’insussistenza delle motivazioni addotte dal padrone, qualunque esse siano, non può più obbligare il padrone stesso a rimettere in servizio quel dipendente. Al massimo può “condannarlo” (è proprio quanto da sempre chiedono i padroni, non fatevi ingannare dalle parole) a liquidare al dipendente una indennità “pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. In pratica, il prezzo massimo che un padrone dovrà pagare per estromettere un lavoratore esperto, quasi sempre con famiglia (12 anni o più di anzianità lavorativa implicano persone come minimo over 30 anni di età), consapevole dei propri diritti e disposto a farli valere.

L’unico caso in cui resta la possibilità della “reintegra” è quello in cui “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”. In pratica: se il padrone ha giustificato il licenziamento accusando falsamente il dipendente di aver commesso una “mancanza”.

Nella realtà quotidiana, è assai difficile che un padrone sia così cretino da invocare un “fatto materiale” falso – e “chiaramente dimostrabile” come tale – quando può invece avanzare ragioni economiche o di altro tipo, fin qui (in misura molto parziale, visto il disatro già combinato dalla Fornero) protette dall’art. 18.

Di fatto, dunque, la logica che pervade tutta questa parte del “jobs act” è univocamente indirizzata a penalizzare in modo pesantissimo la libertà dei singoli lavoratori di associarsi e difendere collettivamente i propri diritti, le condizioni di lavoro e la retribuzione salariale. In altre parole, di contrattare. Sia a livello aziendale che, a maggior ragione, sul piano nazionale.

E’ il ritorno brutale alla condizione ottocentesca, prolungata in Italia fino alla fine della seconda guerra mondiale. Il “patto di Palazzo Vidoni, del 1926, riconosceva peraltro formalmente il diritto di avere un sindacato, ma ne limitava l’esistenza al solo sindacato fascista. Era la condizione reintrodotta con l'”accordo del 10 gennaio” 2014, liberamente sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil con Confindustria. Ma ai padroni non bastava neanche questo. E Renzi ha fatto “un passo indietro nella Storia”, elaborando una legislazione del lavoro che tende ad eliminare in radice l’esistenza stessa del sindacato. A prescindere dai livelli di conflittualità espressi.

Con questa legislazione, di fatto, l’unica funzione del “sindacato” è quella di ratificare le decisioni dell’impresa, apponendo la propria firma ad “accordi” che non è abilitato a discutere. Ma di “rappresentanza sindacale” degli interessi materiali reali dei lavoratori non è più il caso di parlare.

* Il testo completo approvato dal consiglio dei ministri: pdfJobsAct_20141224.pdf26.65 KB

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