Se muore l’Università, muore il Paese

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gustavo Piga
Fonte: Gustavo Piga
Url fonte: http://www.gustavopiga.it/

Gustavo Piga – 23 novembre 2014

L’altra giorno all’inaugurazione dell’anno accademico della mia università il Rettore ha mostrato a tutti una slide sulla formazione universitaria che mi ha fatto sobbalzare. La conosco bene quella slide, l’avrò mostrata chissà quante volte sul blog e nei convegni, è diventata il mio incubo, il simbolo di cosa non facciamo per far ripartire questo Paese, della nostra maledetta incompetenza di politica economica, industriale, culturale, a fronte di un patrimonio che ci permetterebbe di volare in alto, più in alto di tutti. Ma ho sobbalzato perché il Rettore ha mostrato l’aggiornamento al 2013, che non avevo mai visto.

E sì che vi è da sobbalzare.

Mostra, la slide, la percentuale, nei vari Paesi dell’Unione europea, della popolazione tra i 30 ed i 34 anni di laureati. L’Italia, il Paese del Rinascimento, è finalmente riuscito a mostrarsi definitivamente per quello che è: ultimo nella classifica, sotto il 25%, quando l’Europa chiede a tutti i Paesi di raggiungere entro il 2020 il 40%, valore già raggiunto dalla maggioranza dei Paesi dell’UE, e che per il 2020 è probabile solo 8 Paesi, ovviamente noi compresi, non raggiungeranno.

E’ ovvio che il dato dipende da mille fattori di cui tenere conto. Essendo persone con età media di 32 anni possiamo immaginare che si siano laureati circa 10 anni fa, quindi ben prima che la crisi finanziaria e poi economica ci toccassero. E’ un problema strutturale, che viene da lontano, quindi. La recessione potrebbe aiutare questi numeri a salire? Tipicamente sì: quando l’economia non tira i giovani trovano rifugio “involontario” nella formazione. Ma sappiamo che i numeri sugli iscritti nelle università italiane vanno calando e quindi non possiamo nemmeno sperare nell’effetto “disperazione”, superato da un qualcosa di apparentemente misterioso che allontana come un virus minaccioso i nostri ragazzi dall’entrata nei nostri atenei.

C’è poi l’effetto emigrazione. Molti ragazzi che provengono da famiglie che possono permetterselo o che sono disposte a fare sacrifici ormai mandano i loro ragazzi all’estero, ragazzi che in buona parte non torneranno, acquisiranno la residenza e forse la cittadinanza altrove e finiranno per non far parte nemmeno della popolazione (quella italiana) di riferimento.

L’effetto emigrazione a sua volta è dovuto sia alla recessione (e quindi lo vedremo tra qualche anno su questo grafico) sia alla migliore qualità media delle università straniere (e quindi questo lo vediamo probabilmente già nella tabella sopra). E’ impressionante notare dal grafico come si stia allargando il gap tra noi ed il resto d’Europa in poco più di 10 anni: gap che tra noi ed i terzi classificati era pari al 25% nel 2004 ed è al 30% oggi.

E a poco serve dire che la statistica non conteggia i giovani di cittadinanza straniera che si laureano in Italia: anche su questo siamo così carenti rispetto agli altri Paesi che si acuirebbe il divario di performance. Ma questo non farebbe altro che segnalare che il problema non sta tanto nella mancanza di sbocchi nell’economia italiana (lo studente straniero si muove rapidamente fuori dalla penisola appena finiti gli studi), quanto piuttosto da una mancanza di attrattività per i giovani del nostro sistema universitario.

Non voglio stavolta dire che il colpevole sia il Fiscal Compact, perché gli altri Paesi, anche quelli colpiti dalla recessione e più deboli, crescono tutti più di noi. E anche perché, lo ripeto, queste statistiche provengono da anni “non magri”, prima della crisi. Ma certamente con il Fiscal Compact essi sono destinati ad acuirsi da qui in poi in assenza di una mobilitazione generale. Perché l’Università è destinata ad essere la prima vittima dei tagli richiesti dall’Europa: troppo facile farlo.

Guardiamo le statistiche del DEF delle manovre del Governo Monti-Letta-Renzi di questi ultimi anni per quello che sta facendo sul lato della spesa. Partiamo dagli ultimi dati sul 2015 con la finanziaria: con un PIL che praticamente non cresce la spesa primaria corrente – che include pensioni e spesa per l’università – rimane pressoché costante al 42,7% del PIL. Se le pensioni aumentano di 4 miliardi, il resto dunque diminuisce.

Ma all’interno di questo valore che diminuisce il Governo potrebbe trovare le sue priorità (si chiama spending review, che non vuol dire tagli ma priorità di spesa): l’Università per esempio. La Relazione trimestrale di Cassa appena uscita – che paragona spese nel primo semestre 2012 a quelle del 2014 – sembra dire tutt’altro:

  1. Pagamento di stipendi: da 17,7 miliardi a 17,6 (malgrado l’inflazione positiva del periodo)
  2. Consumi intermedi: da 414 milioni a 324 (includete in queste le manutenzioni delle aule, degli uffici, dell’informatica, ecc.)
  3. Trasferimenti correnti: da 3,2 miliardi a 0,9 (anche se la nota precisa che nel secondo semestre queste differenze saranno riassorbite, il ritardo è un danno, specie se trattasi di borse di studio, che le Regioni, con i tagli attuali, stanno pensando di dover ridurre nel 2015)
  4. Contributi alle residenze degli studenti universitari sempre fermi a … zero
  5. E con… un aumento alle università non statali (!) da 15 a 29 milioni.

http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Attivit–i/Contabilit_e_finanza_pubblica/Trimestral/2014/index.html

I numeri sono chiari e si traducono in investimenti sempre più scarsi: ci vogliono tre docenti che vadano in pensione per poter assumerne uno nuovo; gli stipendi pressoché uguali per tutti (una volta vinto il concorso) – con poca distinzione per la qualità della ricerca di base, della didattica, del rapporto con le imprese – e ormai fermi da tempo, quando nel resto del mondo la qualità viene sempre più premiata.

Non vi è più spazio per i giovani ricercatori.

Le strutture di formazione in lingua inglese per studenti stranieri non sono premiate che minimamente, senza risorse stanziate per potersi presentare nel mondo e combattere alla pari la battaglia per attrarre talenti in Italia: marketing, residenze di qualità, professori stranieri di qualità, lauree congiunte con università straniere di qualità, sono lasciate alla volontà di pochi che resistono.

Il Sistema Paese non si organizza per fare della formazione universitaria un export di valenza strategica come nel Regno Unito, che non solo ottiene significative rette dagli studenti stranieri, ma ottiene da questi una gratitudine che nel tempo frutterà al Paese una rete di conoscenze e benefici indiretti per le proprie imprese ed i suoi cittadini. Il sistema confederale delle imprese e il sistema bancario hanno smesso di aiutare le università pubbliche italiane con donazioni e rapporti intensi di collaborazione e si limitano a rapporti con due tre università private e qualche centro di eccellenza.

In questo stato, non dovremmo sorprenderci se l’Università italiana ha smesso di essere attrattiva. Ma se l’Università diventa meno attrattiva è il Paese che lo diventa. Immaginate l’Università come una palestra: se non la si pratica quotidianamente, si deperisce, si diventa meno forti, si perdono le gare.

Traggo spunto da una citazione letta ieri al convegno di Tor Vergata sui 25 anni dei diritti dei bambini. E’ di Anthony Lake DG dell’Unicef, che ha detto: “svariati studi dimostrano che quando si costruiscono politiche e programmi volti a raggiungere gli obiettivi difficili e non quelli più facili, otteniamo più risultati. Certamente ci sono più costi nel farlo. Ma le nostre analisi mostrano come tali costi sono superati dai risultati addizionali”.

Aver lasciato la politica dell’Università fuori dalla spending review, fuori dalle riforme per prediligere questioni irrilevanti ed avergli riservato tagli a casaccio ed indifferenza in tutti questi anni è una delle ragioni primarie del nostro fallimento: è stato come mirare agli obiettivi più facili. Mentre il mondo punta sull’università del domani, noi ci siamo chiusi a riccio nelle polverose stanze della contabilità, a tagliare senza osare, a contare col pallottoliere senza sognare col pennello di tracciare l’affresco stupendo del sapere, affresco che sarebbe alla nostra portata, come lo erano quelli che tracciammo, con immensi sforzi fisici e visionaria follia, nel nostro Rinascimento.

Meritiamo di meglio.

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