Fonte: huffingtonpost.it
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di Luigi Pandolfi, da huffingtonpost.it 30 ottobre 2014
Cosa rappresenta oggi Renzi? Cos’è il “suo” partito democratico? Come si può qualificare l’azione del suo governo? Dopo la grande manifestazione della Cgil a Roma e la Leopolda di Firenze, forse, a queste domande è più agevole dare una risposta.
Incominciamo dalle prime due, con una premessa: questo ragazzotto vivace e molto ambizioso è un figlio prediletto della lunga e pervicace crisi della politica che ci sovrasta dalla fine degli anni ottanta e del modello berlusconiano che, intelligentemente, l’ha interpretata e cavalcata per oltre un ventennio. Non c’è dubbio: il Cavaliere politicamente è finito, ma la sua eredità incombe, impastandosi agli effetti tossici, sul versante politico e sociale, della crisi economica ancora in atto. Di che modello si tratta? Tre, a mio avviso, i suoi principali elementi costitutivi, che, mutatis mutandi, rinnovano con Renzi la loro presenza nel sistema politico italiano:
1)La politica è la comunicazione. Berlusconi è stato il pioniere della televisione commerciale nel nostro paese ed il primo politico al mondo che abbia concepito il suo partito alla stregua di una merce qualsiasi da piazzare sul mercato. In questo caso parliamo ovviamente di mercato elettorale. Di più: Forza Italia, che già nel nome richiamava il genio della trovata pubblicitaria, nacque prima in televisione, in quanto spot, e poi nel paese reale, nelle città, nei territori. Col tempo anche Forza Italia ha dovuto concedere qualcosa alle regole, ed anche alle liturgie, della politica tradizionale, dandosi un minimo di organizzazione a livello sia centrale che periferico. E tuttavia non si può non riconoscere che sia stata più la politica “tradizionale” ad essersi “Forza-italianizzata” in questi anni che non il contrario (il crollo degli iscritti al Pd suffraga ampiamente questa tesi).
2) Il partito è il suo leader. Anche questo fenomeno, che negli ultimi anni è cresciuto enormemente nel nostro paese, è in qualche modo riconducibile alla semina berlusconiana, da cui si è sviluppata una visione dei partiti e della politica in cui a contare sono principalmente il carisma del capo ed il suo “saper apparire” televisivo. Ha fatto scuola, insomma, una certa visione della politica, che dalle parti del partito berlusconiano è stata ad un certo punto anche codificata, con esplicita allusione alla nota categoria weberiana del potere carismatico.
3) Ciò che conta è la volontà del popolo. La “volontà popolare”, in questa ottica, diventa l’unica fonte di legittimazione del potere carismatico, anche a scapito delle regole formali della democrazia e del confronto con i corpi intermedi della società. Il ragionamento è questo: chi ha ricevuto un mandato dal popolo per governare, solo a quest’ultimo deve dar conto del proprio operato.
È il poker del populismo postmoderno, della democrazia televisiva (e del web), nuova frontiera dell’integrazione passiva delle masse nella vita pubblica della nazione. Telecomando, tastiera e smartphone al posto dei luoghi fisici della discussione, del confronto, della socializzazione delle idee. E il voto (comprese le primarie) per consegnare una delega in bianco all’uomo della provvidenza.
Matteo Renzi: il presenzialismo generoso nei salotti televisivi nazionalpopolari, il primato delle slide sulla formalità dei provvedimenti adottati, l’immagine dell’uomo solo al comando, la retorica del “noi siamo legittimati dal 40,8% degli elettori” e quella del cambiamento ostacolato da lobby, burocrazia e non meglio decifrabili poteri forti, l’insofferenza verso i sindacati, gli intellettuali e in generale verso il dissenso, costituiscono o no gli ingredienti di una versione 2.0 del berlusconismo che abbiamo conosciuto negli anni passati? Senza dubbio, di più c’è solo Twitter. Perfino la crociata contro la sinistra (Sic!) del partito appare come una prosecuzione della retorica berlusconiana contro i “comunisti”, nemici immaginari, ovviamente, che esistevano soltanto nella propaganda, esattamente come i “nemici del popolo” esistevano soltanto nella propaganda dei partiti staliniani.
Il resto è figlio della crisi economico-finanziaria scoppiata sette anni fa, che le élite capitalistiche hanno assurto a metodo di governo, sostenendo ovunque la causa del trasversalismo e delle larghe intese, appoggiando – anche finanziariamente – figure mediocri e ubbidienti a capo dei governi nazionali.
All’ultima Leopolda il Pd neoberlusconiano è stato definitivamente sdoganato. Di fatto è stato rottamato ogni residuale senso del pudore di fronte all’evoluzione di un partito vie più coincidente con il suo leader e il suo ipertrofico esibizionismo mediatico. È nato un nuovo partito, di destra per la sua visione dell’economia e della società, populista ed ispirato dai poteri forti, funzionale al governo autoritario della crisi. Giudizio troppo forte? Non avrei altri aggettivi per definire una forza politica in cui c’è spazio per le posizioni del finanziere Serra sul diritto di sciopero!
Veniamo infine ai contenuti dell’azione di governo. La parola chiave del Renzi-pensiero è “cambiamento”. Un termine che, insieme a quello di “progresso”, ha da sempre sostanziato il linguaggio della sinistra. Con una differenza di fondo, però: il “cambiamento” perorato dal premier, sotto dettatura di Confindustria e della Troika, è un “cambiamento regressivo”, che, in nome dell’ideologia neoliberista oggi dominante, mira a destrutturare, ad alleggerire, ciò che rimane del modello sociale “europeo” nel nostro paese, in continuità con le dure politiche di austerità già adottate dai governi precedenti, a partire dal grigio e rude governo Monti.
Ciò che distingue questa fase da quelle precedenti è solo l’abile, efficace, declinazione populistico – demagogica delle scelte che si compiono, con rovesciamento ingannevole del segno e delle finalità dei provvedimenti che di volta in volta si assumono. Si sta dentro il recinto dell’austerità decretandone il fallimento; si tagliano diritti annunciandone la loro estensione; si crea nuova precarietà dichiarandone tra gli strombazzi la fine.
La legge di stabilità appena varata, che per essere compresa va letta in maniera coordinata con la delega sul lavoro (Jobs Act), è il manifesto di questo nuovo corso del Pd: vecchie ricette liberiste (meno tasse alle imprese = crescita) e attacco ai diritti dei più deboli serviti come se si trattasse di una soluzione (di sinistra) alle crescenti ed insopportabili disuguaglianze della nostra società. Insomma, l’atto di fondazione della nuova destra italiana, che alla vecchia stazione di Firenze ha trovato la sua trionfale ed incontrastata consacrazione.