Fonte: La stampa
Un abisso di disumanità e barbarie
Satnam Singh non ce l’ha fatta. È morto al San Camillo di Roma per la gravità delle ferite riportate nel campo vicino a Latina in cui lavorava, ma soprattutto per la negligenza degli aguzzini che l’avevano reclutato e sfruttato. Il suo non è “solo” un incidente sul lavoro, uno dei troppi che la cronaca ripropone ogni giorno e ogni giorno archivia. Morti di per sé terribili, ognuna con i suoi particolari raccapriccianti, il suo seguito di dolore e di lutto dei famigliari, il senso di ingiustizia che ripropone. Ma questa è una storia ancora diversa, per l’abisso di disumanità e di barbarie che rivela.
È una storia che sembra scritta da una mente malata, da un’immaginazione perversa. Dilaniato lunedì mattina dal macchinario avvolgi-plastica a rullo con cui lavorava, è stato gettato su un pulmino a nove posti (di quelli usati dai caporali per trasportare i loro schiavi) insieme alla moglie che era con lui e scaricato di fronte a casa, col braccio mozzato appoggiato su una cassetta della frutta, mentre l’emorragia lo dissanguava e gli scagnozzi del datore di lavoro si dileguavano. Dovrà pensarci la moglie e la sindacalista da lei coinvolta a chiamare i soccorsi, che alla fine interverranno con un elicottero ma, ora lo sappiamo dai medici, troppo tardi. Sappiamo che Satnam Sing, 31 anni, originario dell’India da cui era partito per cercare in Italia un futuro, è stato abbandonato per troppo tempo senza cure, con la pressione del sangue a livelli troppo bassi per permettergli di sopravvivere al trauma multiplo subìto. Sappiamo che se fosse stato soccorso come la legge e la coscienza comandano, si sarebbe salvato.
Latina non è un’area sperduta del profondo sud. Dista una cinquantina di chilometri in linea d’aria dal centro della Capitale, là dove si governa e decide. Dove ci sono i centri del potere e del controllo. Possibile che si ignorassero realtà come quella che ha segnato il destino di Satnam Singh? Che gli andirivieni dei caporali e dei loro capobastone non fossero visibili a chi dovrebbe vigilare sulle regole che egli stesso si dà? Che la presenza nei campi, a cielo aperto, ben visibili a chiunque, di uomini e donne come lui e sua moglie impiegati senza lo straccio di un contratto come bestie da soma, fosse sfuggita fino al momento della tragedia? Dove erano gli ispettori del lavoro?
Dove erano le forze dell’ordine? Dov’erano le strutture regionali (di quella Regione che ora si offre di pagare i funerali, ma che non ha saputo impedire che la piaga del caporalato dilagasse nel suo territorio). Infine: Dove è stata, finora, la Coldiretti, che nelle campagne ha una presenza capillare e più di ogni altro dovrebbe vedere tutto ciò che vi accade? «Quella che si è consumata a Latina è una intollerabile tragedia che inorridisce il mondo agricolo nazionale e conferma la necessità di tenere altissima la guardia contro il fenomeno del caporalato», ha commentato l’organizzazione stessa. Ma quanti casi di aziende che ricorrono al caporalato sono stati denunciati dalle sue strutture? Sono circa 230 mila i lavoratori irregolari nei campi, vittime di caporali e imprenditori senza scrupoli. 55 mila sono donne Costituiscono all’incirca un quarto dell’intera forza lavoro impiegata in agricoltura. Possibile che nessuno veda niente? Che questi schiavi dell’età post-moderna diventino visibili solo quando muoiono? Quando muoiono! Nemmeno quando restano “solo” feriti. La qualità di un Paese si giudica anche da questi episodi. E non può definirsi Grande una nazione che li permette o li tollera, o anche solo li ignora.