Compito a casa
Tema: Descrivete come passate le vacanze e quali sono i vostri propositi per l’avvenire
Come sono belle le nostre passeggiate in bicicletta per i dintorni di Torino! Telefono tutte le mattine appena sveglio al mio amico Nando, e ci vediamo poi alle dieci e mezzo, ora nella quale scende infallibilmente. Mi piace quando lo vedo sbucare dal portone, quasi sempre con un vestito diverso dall’ultima volta, ma i colori che in lui preferisco sono il bianco e il rosso vivo, e trovo che gli stanno tanto bene. Allora inforchiamo le biciclette, e Nando, che é più ordinato di me, si rimbocca sempre i calzoni con cura. Ci dirigiamo verso i dintorni di Torino, e pedalando con quanto fiato abbiamo in corpo parliamo soprattutto dei nostri studi, perché noi durante le vacanze riprendiamo sovente in mano i libri, e a Nando in modo speciale piace ritornare con il pensiero ai bei giorni che trascorremmo in iscuola. Io frequento Nando perché so che da lui posso imparare mille cose buone: mai dalla sua bocca escono frasi sconvenienti né quelle sudicerie che purtroppo avvelenano l’anima di tanti ragazzi della nostra età. Con Nando parliamo invece di ricordi di scuola e dei nostri professori, e, pur sapendo, che non bisogna godere del male di nessuno, qualche volta facciamo grandi risate insieme, al pensiero di quei nostri compagni che, non avendo studiato durante l’anno, ora devono trascorrere le vacanze in una stanza buia a preparare gli esami di riparazione. Com’é bello essere stati promossi!
Ma Nando mi fa anche delle confidenze, specialmente dopo una lunga pedalata, quando balziamo di sella sul ciglio della strada, e ci sediamo su un muricciolo al margine del bosco, che é ormai il “nostro” muricciolo. Restiamo così sul margine della strada, e bene in vista, perché che cosa direbbero i passanti se ci vedessero scomparire tra le piante?
Del male bisogna evitare anche l’apparenza, e la gente é già troppo disposta a malignare. Se due ragazzi si nascondono, “ecco” dice il mondo “ne combinano qualcuna, chi sa una monelleria o anche qualcosa di più grave”. E noi abbiamo deciso, una volta per sempre, di non nasconderci e di fare ogni cosa alla luce del sole.
Ma dicevo che Nando mi fa delle confidenze e io gli faccio le mie, e questo ê uno dei momenti più belli dell’amicizia.
Nando mi dice cose che mi lasciano sbalordito, perché intelligente e pieno di cuore com’è, vorrebbe tranquillizzare i suoi genitori e mettere se stesso al riparo dai pericoli della vita. Insomma, parla di sposarsi e gli pare di aver perso già troppo tempo. Io gli dico che aspetti almeno un altr’anno e finisca prima la scuola, ma Nando comincia ad affannarsi e dice che vuol fare come dice. Io so bene che tutti noi ragazzi abbiamo di queste idee bizzarre perché stiamo appunto attraversando l’adolescenza che è già un’età piena di pericoli e di tentazioni, e fortunato chi se la può cavare come c’è la caviamo io è Nando! Ma l’idea di sposarmi, a me non era mai venuta. Gli domando allora sorridendo se già sa chi vorrebbe sposare e cerco di distrarlo come vuole l’amicizia, ma Nando si fa pensoso e i suoi occhi castani si abbassano al livello stradale: “È una scelta difficile, – mi dice, – si tratta di tutta la vita”. E mi espose una sua idea che mi colpì. Egli vorrebbe che nella scuola accanto ai corsi soliti, che frequentiamo ce ne fosse anche uno di fidanzamento, con un professore buono e paterno, come quello che c’impartisce le lezioni d’italiano o come il nostro signor preside, e che il programma fosse distribuito in modo che, senza distrarre gli scolari dalle altre materie, alla fine dell’anno chi si è applicato con profitto e volontà si trovasse sposato. “Pensa come sarebbe bello!” Mi dice. Non vorrebbe però professoresse, e qui lo approvo, perché le donne di qualunque condizione o età non possono che fare del male ad un adolescente. Qui devo confessare un mio pensiero, e lo faccio perché il nostro professore non si stanca di inculcarci la sincerità, soprattutto con noi stessi. Il pensiero è questo: che vorrei cambiare sesso ed essere una compagna di Nando per poterlo sposare io, tanto gli voglio bene. Ma penso che, se fossi una ragazza, non avrei l’occasione di andare con lui in bicicletta, e allora è meglio che sia così e che siamo amici. Tanto più che Nando cambierà certo idea, perché ha tanta vita ancora davanti a sè, e gli dico allora di pensare a studiare, che così compenserà la famiglia ed i professori dei sacrifici che fanno per lui, e un bel giorno saranno i suoi genitori a trovargli una moglie. Allora Nando fa le boccacce, ma è tutto contento.
Com’è bello attraversare in bicicletta la campagna! Le margherite dei prati ci ammiccano e c’invitano, la strada corre liscia tra il verde, e il cielo azzurro riflette la serenità dei nostri pensieri. Qualche volta passano altri gitanti – soldati, operai o famigliole – e sempre quando ci vedono gettano un urlo giocondo che ha il potere di far chinare Nando sul manubrio e di farlo arrossire di felicità.
Ma mi accorgo che voi non conoscete ancora Nando e, prima di concludere, voglio descriverlo. È un ragazzo simpatico e intelligente che, visto di profilo, pare già un uomo fatto, e di faccia invece è giovanissimo, perché ha due grandi occhi che si stupiscono sempre. È sempre molto pulito e ravviato, non come me che dimentico qualche volta di pettinarmi. Solamente a vederlo, io mi sento più buono e volenteroso, e prometto che per essere degno di lui sarò sempre studiosissimo e quest’altr’anno, se il diavolo non ci mette la coda, farò un esame coi fiocchi! Così potremo di nuovo trascorrere insieme le nostre vacanze e impareremo tante cose e saremo felici.
Cesare Pavese – Torino, 22 agosto 1940
Scherzoso tema scolastico, scritto da Pavese su fogli protocollo a righe coi margini, che mette in gioco le conversazioni con Fernanda (Nando) Pivano conosciuta/frequentata quella estate. Traspare l’affettività di Pavese e anche quella “sessuofoba” di Fernanda Pivano. Anni dopo Pavese chiese a Fernanda Pivano di sposarlo, senza aver mai tentato di baciarla nè di sfiorarle la mano.
La Pivano peraltro, stimolata da Pavese, in quegli anni intraprese l’attività di traduttrice che iniziò facendo conoscere l’antologia di Spoon River (1943
Pavese nominò per la prima volta Fernanda Pivano nel suo diario il 26 luglio del 1940 con il nomignolo di Gognin, che in piemontese vuol dire “musetto” ,
Il modo del Gôgnin di «parlare a vanvera» smettendo capricciosamente un argomento e riprendendolo poi a gusto, è diventato uno stile, e diventa suo amico chi lo accetta e lo adotta. Lei se ne compiace e se ne fa un vezzo. Potenza dello stile.
ma in realtà si erano già conosciuti nel 1935, quando il ventiseienne Cesare Pavese viene nominato supplente di italiano del Liceo Classico “D’Azeglio” di Torino, tra le allieve c’è Fernanda Pivano. È lei stessa a raccontare nei Diari 1917 – 1973 (editi da Bompiani) il primo incontro con quel professore «giovane giovane» .
“Era diverso dagli altri: lui ci faceva leggere i canti di Dante e ce li spiegava, gli altri insegnanti ce li facevano solo imparare a memoria. Ricordo, come se fosse ieri, le lezioni su Guinizelli. Lui era talmente innamorato della trasformazione artistica di questo autore che spiegandocelo ci lasciava senza fiato. E io mi sono appassionata, in modo forse sproporzionato, agli autori che Pavese leggeva. Li leggeva ad alta voce, in modo incantevole, fino a farli entrare nel cuore.”
Accusato di antifascismo, Pavese venne arrestato il 15 maggio del ’35 e poi condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro.
Si incontrarono di nuovo nel 1939 o nel 1940 sempre Fernanda Pivano nel diario scrive:
“…Vivevo dalla cintura in su, anche se poi avevo schiere di pretendenti, sapete, ero bella, virtuosa, e ancora non si diceva che virtuosa era uguale a donna noiosa.
Insomma un giorno Cesare Pavese viene a trovarmi in piscina con Norberto Bobbio. Avevo un bel costumino di seta rossa, carino, che veniva da Vienna, e loro mi hanno chiesto che cosa facevo. E io: “Sono stata bocciata insieme a Primo Levi”. E giù a ridere come pazzi tutti insieme, perchè era una cosa ridicola. Da loro prendevamo voti alti, e poi vederci bocciare con dei due e tre, era una cosa strana. Allora Pavese mi ha chiesto: “Cosa avete fatto, come mai? Cosa ha scritto lei?”. E io: ” Ho detto che quando i soldati tornano dalla guerra non è vero che dobbiamo ringraziarli perchè hanno ammazzato il nemico. Ho detto che bisognava mettere dei fiori nei loro fucili, così non potevano più uccidere nessuno”.
In pieno impero etiopico non era il caso di fare un tema così. E poi Pavese ha detto: “Che cosa ha fatto all’università?” Ed io: “Ho chiesto una tesi di inglese. Me ne hanno dato una su Schelli, noiosa”. E lui: “Ma perchè non l’ha chiesta di letteratura americana?”. Ed io ho fatto la domanda fatale, che mi ha fregato per tutta la vita: “Che differenza c’è?” Allora lui si è messo a ridere e mi ha detto: “Lei non sa che io sono quello che ha introdotto in Italia la letteratura americana?” E io lì come un’oca.
Quella sera lui mi ha lasciato in portineria quattro libri che erano: Addio alle armi di Ernest Hemingway, Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters, l’autobiografia di Sherwood Anderson e Foglie d’erba di Walt Whitman. Lui non poteva fare una scelta più precisa, più giusta. E io quella sera ho aperto il libretto dell’Antologia di Spoon River alla pagina di Francis Turner dove diceva… non mi ricordo adesso la poesia a memoria… ma insomma diceva: “Io da bambino non potevo nè correre nè giocare perchè avevo avuto la scarlattina”. Oppure: “Un giorno baciando Mary con l’anima sulle labbra, l’animo d’improvviso mi volò via…” E io mi sono innamorata di questa cosa, Dio santo. E non sapevo niente di questa antologia, però me ne ero pazzamente innamorata. E senza dire niente a Pavese, mi ero messa a tradurla. Mai, in quel momento, avrei potuto immaginare di vivere facendo il lavoro del traduttore, non sapevo neanche che esistesse questo lavoro…”.
Iniziò così la lunga amicizia tra lo scrittore e la futura traduttrice. Per Pavese fu anche la storia di un amore non corrisposto, anche se pare soprattutto un amore per corrispondenza, un amore sublimato. Tra le numerose lettere che Pavese scrisse alla Pivano in quegli anni ne spicca una in cui, con acutezza e ironia, descrive se stesso:
Nella minuta a questo finale è stata aggiunta per tre volte e per tre volte cancellata la frase « sia come vuoi tu». Questa lettera porta la data del 5 novembre del 1940, Pavese confessa a Fernanda Pivano “Racconto, in questi fogli, cose vergognose, che lei capirà bene che non glieli do per nessun secondo fine. Glieli do per amicizia, perchè sono anche, e molto, Suo amico.” Aggiunse che “le docce fredde” bisogna darle soprattutto a se stessi. Di fatto è stata una maniera per giustificare e scusarsi di una lettera di qualche giorno prima che aveva inviato alla Pivano:
Analisi di P.
P. è senza dubbio un uomo insolito, ciò che non vuole ancora
dire un uomo che valga.
Ha i tratti più evidenti del raté – mancanza di una routine sociale e facilità a disancorarsi — ma ha insieme una capacità di concentrarsi su un singolo oggetto – lavoro o passione – che gli ha permesso, pur nel disorientamento intermittente, di realizzare qualche risultato e qualche sicurezza di sé.
La sua tendenza fondamentale è di dare ai suoi atti un significato che ne trascenda l’effettiva portata; di fare dei suoi giorni una
galleria di momenti inconfondibili e assoluti. Nasce di qua che,
qualunque cosa dica o faccia, P. si sdoppia e mentre pare prendere
parte al dramma umano, altro intende nel suo intimo e già si muove in una diversa atmosfera che traspare nelle azioni come intenzione simbolica. Questa, che parrebbe doppiezza, è invece un inevitabile riflesso della sua capacità di essere – davanti a un foglio di
carta – poeta. Per quanto P. sia convinto che arte e vita vanno tenute nettamente distinte, che scrivere è un mestiere come un altro.
come vendere i bottoni o zappare, non gli riesce di prendere la sua
esistenza altro die come un gigantesco spettacolo che lui redta. Ma
chi paragona la vita a uno spettacolo, solitamente sottintende che
lo spettacolo non va preso sul serio, che la vita è una menata, e cose
simili. A P. succede invece di recitare terribilmente sul serio, di
scatenare in ogni scena importante della sua vita tanta pienezza
passionale e tanto fervore di chiarezza rivelatrice, che in sostanza
ha tutta l’aria di un poeta tragico che salga tra i suoi personaggi a
uccidere o farsi uccidere.
Ma chi dice spettacolo, dice pubblico. Qui è la tara oscena e inconfessata di P. Da studente P. in una sera di sbornie, si senti cosi
trascurato e non applaudito, che per strada fra un gruppo di amici
scelse di lasciarsi cadere in terra come un sacco, al solo scopo di
essere lui il centro dell’attenzione. Ricordo che, rimesso in piedi e
sostenuto, piangeva per la rabbia di non essere stato abbastanza
« pietoso ».
Ora, P., che senza dubbio è un solitario perché crescendo ha capito che nulla che valga si può fare se non lontano dal commercio del mondo, è il martire vivente di queste contrastanti esigenze.
Vuol esser solo – ed è solo -, ma vuol esserlo in mezzo a una cerchia che lo sappia. Vuole provare — e prova – per certe persone
quei profondi attaccamenti che nessuna parola esprime, ma si tormenta giorno e notte e tormenta queste persone per trovare la parola. Tutto dò è, senza dubbio, sincero, e per disgrazia s’intrica
con l’esigenza espressiva della sua natura di poeta. P. chiama anzi
tutto ciò bisogno di espressione, di comunicazione, di comunione;
e la sua mancanza, tragedia della solitudine, incomunicabilità delle
anime, e via dicendo.
Che potrà fare un uomo simile davanti all’amore? La risposta
è evidente. Nulla, cioè infinite cose stravaganti che si ridurranno a
nulla. Una volta che sarà innamorato, P. farà esattamente ciò che
gli detta la sua indole e che è appunto ciò che non va fatto. Lascerà
capire, innanzi tutto, di non essere più padrone di sé; lascerà capire
che nulla per lui nella giornata vale quanto il momento dell’incontro; vorrà confessare tutti i pensieri più segreti che gli passeranno
in mente; dimenticherà sempre di mettere la donna in posizione
tale che essa lasciandolo si comprometterebbe. Questa, che è la
prima elementare precauzione del libertino (il solo che applichi
con impeccabilità la strategia amorosa), in P. invece si rovescia addirittura. P. si dimentica d’innamorare di sé la donna in questione,
e si preoccupa invece di tendere tutta la propria vita interiore verso di lei, d’innamorare di lei ogni molecola del proprio spirito, di tagliarsi insomma tutti i ponti dietro le spalle. Cade qui a proposito la sua confessione die, quando è innamorato, lui vive nella fisica
impossibilità di avvicinare altre donne – debolezza questa che nessuna donna, neanche l’amata perdona. Perché tanta ingenuità? E’ evidente: P. fa sul serio, recita sul serio, e si monta come l’attore
di vecchia scuola o come quel trageda dannunziano che voleva che
nemmeno la maschera dorata di un suo Atride fosse di « metallo
vile ». Ecco la mania di assoluto, di simbolismo, che si diceva in
principio. P. gioca ( plays ) fino in fondo la sua parte amorosa, primo per il suo bisogno feroce di usare dalla solitudine, secondo per
il bisogno di credere totalitariamente alla passione che soffre, per il
terrore di vivere un semplice stato fisiologico, di essere soltanto
il protagonista di un’avventuretta. P. vuole che ciò che prova sia
nobile, significhi, simboleggi una nobiltà sua e delle cose; diventi
un idolo, insomma, cui valga la pena di sacrificare anche la vita, o
l’ingegno – che sa di avere grande.
Ma chi gli chiede di sacrificare l’ingegno o la vita? Quale donna, chiede a un uomo di perdere assolutamente ogni staffa e ogni
puntello, e amarla con l’intensità cosmica e inutile di un temporale
d’agosto? Quale donna se non la vampi E difatti P. ha il dono di
trasformare verso se stesso in vamp ragazze che non se lo sognavano neppure. In un primo tempo, le trasforma in vamp e si fa rovinare tutto il rovinabile; poi, quando le macerie sono cadute e lui si
ritrova solo, gli accade che la vamp prova rimorso e torna a cercarlo, con un gesto malinconico e materno. P. allora si vergogna e s’infuria, e ritorna alla sua solitudine. Naturale tragedia: tutti gli amori ottiene, o può ottenere, P. dalle donne, meno l’unico cui, come
tutti i ratés, lui anela veramente dal fondo del cuore: l’amore di
una moglie.
Questo desiderio feroce di una casa e di una vita che non avrà
mai, affiora in un’orgogliosa sentenza che P. pronunciò un giorno
nel forte della sua nota e ormai famosa passione. « Le uniche donne che vale la pena di sposare, sono quelle che non ci si può fidare
a sposare ». Qui dentro c’è tutto: la vamp e la furia, la moglie e il
sogno incrollabile. A questo sogno P. è, come dire, crocifisso, e
niente è più patetico degli scossoni che dà per schiodarne le mani.
È perché si sa inchiodato in questo modo, nell’impossibilità sia di
muoversi che di ripararsi, che ogni avvisaglia di nuova passione lo
fa tremare.
P. ha una forte fantasia e gli basta rappresentarsi se stesso in
un’immagine dolorosa – come questa – per risentirne fisicamente
le torture. Solitamente accade che l’esasperata sensibilità dei tipi
come P. ha però il fiato corto, e sia le fantasie che l’intera passione
divampano e finiscono presto. Ma P. non è un tipo comune. Anni
fa, quest’immagine della croce se la portò nei nervi per più di tre
mesi continui , insieme a quella che lui chiama dello sradicamento
– il senso di avere il petto e il cuore lacerato e sanguinante per lo
strappo violento delle mille radici che una donna vi aveva messo.
Così accade per la passione nel suo decorso, ed è del resto naturale. La stessa esigenza di simbolica nobiltà che vale nella genesi degli affetti di quest’uomo, si fa valere nella loro forza di durata e,
del resto, P. getta loro inconsapevolmente tali basi, che a fatica li
può distruggere l’acido stesso della loro dimostrata inutilità. Qui
occorre tener presente che in P. una passione s’intrica con la sua
poesia, diventa carne di poesia, e come tale gli s’identifica col linguaggio, con lo sguardo, col respiro della fantasia.
In un lungo periodo, P. raggiunse una sua stoica atarassia attraverso la rinuncia assoluta a ogni legame umano, se non quello,
astratto, dello scrivere. Si sentiva come intontito e chinava il capo,
e cercava di scrivere. Ma di mese in mese e di anno in anno scriveva sempre meno: la vita in lui si prosciugava. Diventava un fantasma. Pure P. teneva duro, perché sapeva che un franamento verso
le creature, verso qualunque creatura, sarebbe stato soltanto una
ricaduta, non una rinascita. Altro suo detto memorabile è « tutto
o niente » – « Aut Caesar aut nihil » – P. non si ferma a mezza
strada.
Invece avvenne il franamento, e P. cercò di fermarsi a mezza
strada, e non ci riuscì. Adesso sconta ogni istante della fittizia solitudine che si era creata. La vita si vendica con una solitudine vera.
Sia come vuole la vita .
[Torino,] 20 ottobre 1940
Analisi amorosa di F.
Una ragazza che non conosca ancora l’amore – siamo franchi, il sesso – ha un segreto che nessuno, nemmeno lei, può penetrare. E’ come un uomo che non abbia mai conosciuto il pericolo e ignori quindi le proprie reazioni alla paura e all’entusiasmo: è una castagna chiusa.
Ma è vero che F. non conosce l’« amore »? Certamente non ne
conosce l’ultima istanza, ma un suo atteggiamento davanti al problema esiste, e con ciò s’intravede qualche lineamento del suddetto segreto.
Dai suoi discorsi si coglie imo sforzo continuo, penoso, di raffigurarsi un’esistenza in cui il sesso non esista. Se fosse una comune
ragazza « en fleur » si potrebbe dire che il suo è soltanto il brivido
prima del tuffo, e pace. Ma F. non è ima ragazza comune. Anzitutto ha una lunga esperienza – cercata? – di cose d’amore sociali,
e – ciò che più conta – si è costruita un’esistenza dove vale il suo
senso della responsabilità, dove prende posizione e fa e decide e
svolge una parte non passiva. Non penso all’esistenza « mondana »
che a tutte le ragazze della sua condizione tocca in sorte, ma a quella organizzativa, a quella selettiva di gusti e attività spirituali
(sport, musica, lezioni), a quella affettiva (dramma familiare).
Nelle sue uscite c’è una costante. Dice di sé che è mascolinizzata, dice che il padre va messo in collegio, sostiene che tra uomo e
donna esiste amicizia, ragiona di casi amorosi altrui con spregiudicata chiarezza, canzona la « femminilità ». Tutto ciò non è baldanza da « fillette », per la ragione che, benché ostentato, non esclude la
tranquilla confessione di altre cose notevoli: «Non tengo gatti,
perché soffrirei troppo a perderli »; « Tre sono gli uomini che mi
hanno voluto bene veramente»; «Sono fragile, umida, e so che
qualcuno mi deve plasmare. Sarà questo quell’uomo»; ecc. C’è
una seria e onesta comprensione femminile in queste frasi; non si
possono liquidare come sentimentalismo scherzoso.
Più del resto significativa è la confessione sui gatti. C’è qui il
tentativo — e il bisogno sincero – di crearsi un « mito »: tanto che
- parla di chi le ha voluto bene, col tono con cui parla di queste
bestie. Naturalmente scherza, ma gli scherzi – che sono istanti di
distensione e insieme di « routine » – dicono più che non le frasi
meditate. F. ha il terrore di attaccarsi a una creatura.
È importante. Ecco intanto confermato che il suo « shrinking »
non è un lezioso derivato sessuale della verginità, ma una penosa
confessione di debolezza, di paura che per lei amore voglia dire
perdita delle staffe, tuffo non nell’ignoto (è qui il punto) ma nel
meditato calcolato fantasticato vortice della passione. Non è questa la voce dell’inesperienza, ma piuttosto consapevolezza della capacità di una dedizione assoluta. Siccome all’amore è da lei riconosciuto un valore altissimo, totalitario, si trema all’idea di cascarci.
Se F. fosse ima « viveuse », la sua sarebbe un’applicazione dell’exw oi>x — « habere, non haberi ».
Ma F. non è una « viveuse ». O sì? E questo il problema che
soltanto il gran passo potrà risolvere. Ci sono argomenti nettissimi
contro quest’idea: la sua educazione anzitutto, la sua serietà interiore, il suo senso del valore totalitario di una persona, ecc. Ma ce ne sono anche in favore: la sua tendenza a fare degli schiavi (quell’aneddoto della figlia della pettinatrice di Gen. ! ), la sua vivacità intellettuale, il suo gusto del gioco, e anche proprio il senso del
grande valore di sé unito a una sfiducia nella « realizzabilità » di questo valore.
Come finirà F. ? Per lei, più che per un’altra, ciò dipende da chi
incontrerà. Nel senso che più ima macchina è complessa più è delicato il gioco delle sue risposte a un agente esterno. Una comune ragazza di famiglia si sa benissimo come finirà – potrà essere più o
meno beata o infelice, ma ciò non cambierà di nulla il « senso » della sua persona, la sua figura sociale. F. no. F. potrebbe diventare
una dolce padrona di casa, magari birichina o seccante, così come
potrebbe farsi solitaria virago, o donna dello scandalo, o vergine –
rossa o nera, non importa.
Sinora, la sua soluzione che « il sesso non esiste » – mentre pure ne parla sempre – è una prima confessione di fallimento, di scontento. È evidente che F. cerca un uomo che le sappia tener testa, e
che per ora – nessuno dei suoi amici escluso – non l’ha trovato. La
delusione appare persino nella sua vita di casa. Suo padre è il tipico uomo che non le sa tener testa, e niente è più malinconico dello
stupore che le fa […] . La sua pena gaia e continua è di ritrovare
nel ricordo – e nel presente – tutti innamorati che chiedono esclusivamente di abbandonarsi, di abdicare dalla loro virilità, di esserle schiavi. Ma F« impasse » in cui si trova, risulta dal fatto che i pochi non disposti ad abbandonarsi si sono dimostrati superficiali o violenti, […] .
In questa vicenda la figura più enigmatica è la madre. In essa
forse F. vede una prefigurazione della sua stessa possibile sorte dopo un eventuale matrimonio col « wrong man ». E la madre, non lagnandosi mai del suo stato, convince, senza saperlo, F. che dunque questa è la sorte naturale delle donne sposate; e di qua si rafforza la decisione di F. a non abbandonarsi mai a nessun uomo.
Come dire: « se la mamma che è cosi buona, cosi comprensiva, cosi
soggetta, è riuscita cosi poco col suo matrimonio, come potrò riuscire io che sono convinta di essere cattiva, unilaterale e ribelle? »
Una semplice frase detta una sera dalla madre mi ha colpito. « Gli
uomini fanno tutti le corna alla moglie ». Lo diceva con quel tono
rassegnato e persuaso che è privo anche di risentimento – cosi parlava anche la mia mamma – e molto dell’inquietudine e del dissidio
di F. deve nascere da questi placidi e malinconici toni della madre.
Come succede a chi è affezionato veramente a qualcuno, F. confronta tutti i suoi progetti dell’avvenire all’idea che si fa della madre, e la reazione è sempre deprimente.
Cosi è nata la caratteristica posa « attiva e pazzerellona » che
pare il programma di F.: difesa istintiva contro l’estraneità del
mondo, e specialmente del mondo maschile. Ma qui è implicito un
errore che tutti questi « miti della condotta » recano con sé. Ecco:
F. in sostanza cerca di vivere e fare di sé un personaggio che incarni la possibile figura dell’uomo che domani potrebbe amare. Lo vorrebbe spregiudicato, pazzerellone, squisito, « virile » come s’immagina di esser lei, ben sapendo che le più solide virtù (capacità di soffrire, tenerezza, comprensione, ecc.) come non mancano sotto
la scorza a lei, cosi non potranno mancare sotto sotto nemmeno a
lui. In questo modo cerca di placare la paura istintiva della grande
passione supponendo un essere per cui la grande passione sia una
virtù segreta come per lei, e il cui esterno le sia gradito come senza
dubbio a lei piace un mondo sé stessa nello specchio e nell’esame
di coscienza serale. Ora, l’errore implicito in tutto ciò è che F.
scambia per qualità virili, delle deliziose e in lei irresistibili qualità
femminili. F. crede che gli uomini siano nati per l’azione, e cerca
di imitarli. Crede che siano esseri utilitari e pratici, e cerca di imi¬
tarli. Crede che tendano a organizzarsi e vivere « socialmente » e
cerca di imitarli. Succede invece che i veri uomini non sono attivi
ma contemplativi, non sono pratici ma sognatori dell’azione, non
sono « sociali » ma — almeno i migliori — sono solitari. Potrà succedere cosi, che sposi – il più tardi possibile – un pupazzo, magari
un’aquila, che non sa che cosa sia la solitudine – virtù essenzialmente maschile – e proprio per questo non s’accorge del tesoro che ha in casa.
Se ho sbagliato, mi scusi. CP (Autografo presso la destinataria)
Le paure di F.
F. lascia intendere sovente di aver avuto due periodi nella sua
vita, un prima e un poi, un allora e un adesso, e naturalmente non
spiega di piu. Ama molto dualizzare, cioè lasciar scorgere in ogni
faccia in ogni periodo della sua indole e attività due momenti con¬
trastanti, segnati da una crisi: quand’era a Genova e adesso che è
a Torino, quand’era ricca e adesso che è povera, quand’era intellet¬
tuale e adesso che è attiva, quand’era sciocchina e adesso che è ma¬
scolinizzata, ecc. La crisi in questione è da lei sostanzialmente ta¬
ciuta, ma si capisce subito che, per sua natura, questa crisi non può
essere un evento singolo localizzato nel tempo. Con apparente non¬
curanza F. parla della subita trasformazione, e ci vuole un certo
tempo per accorgersi che questa, piuttosto che un ricordo, è un
desiderio, ima decisione, un programma, imo stato d’animo attuale
che si proietta sul passato e glielo sdoppia.
Nonostante certe apparenti intimità F. non si confessa con nes¬
suno (lo prova il fatto che dei suoi molti amici probabilmente tutti
ricevono da lei confessioni, che fatte a imo solo sarebbero dedizio¬
ne fiduciosa – fatte a molti sono soltanto conversazione « interes¬
sante »). Bisognerà quindi auscultare i suoi « discorsi a vanvera »,
caso mai qualcuna delle parole desse un’eco di cavità ignota. Chi,
messo in sollucchero dalla facilità con cui F. abborda argomenti
erotici, si fermasse su questo campo, sbaglierebbe: sbaglierebbe
per la ragione che evidentemente qui F. si sorveglia, si inibisce con
piena coscienza e ben poco lascia intendere della sua vera natura.
La chiave – se chiave esiste – andrà cercata altrove.
Per esempio, nella paura. Una delle cose più vere che abbia det¬
to F., fu ima volta, d’estate in campagna, davanti a certi alberi im¬
mobili nella sera: « Quando le piante sono perfettamente immobi¬
li fanno paura ». Dice poi che ha tuttora paura del buio; e un gior¬
no alluse rabbrividendo alle angosce che provava da bimba discor¬
rendo dietro una tenda, in solitudine, con un interruttore della lu¬
- Chi poi l’ha vista soffrire vere smanie di terrore all’idea che in
casa stesse accadendo qualcosa di odioso e sussultare come un to¬
po sbarrando gli occhi e smarrirsi, ma insieme ricorda la sua alle¬
gra protesta che non le riesce di aver paura di un allarme aereo, co¬
mincia a scoprire in questi caratteri una costante. Questa, cioè:
più che spaventi, le paure di F. sono angosce. Con ciò si viene a di¬
re che la vita interiore di F. (e ciò fin dall’infanzia) è tutta intrisa
di stati d’attesa, di penosa attesa, di un « ignoto » che è insieme de¬
siderato e respinto. Tutti e quattro gli esempi dati s’incontrano in
questo che suppongono un’avidità affettiva, una tensione smanio¬
sa verso un oggetto un’intimità un ambiente, che appaiono al sog¬
getto tanto intense e assolute da capovolgersi, per la solita ambi¬
valenza di questi istinti, in un vivo e diffuso terrore del loro scopo.
Si parla qui naturalmente di un carattere psichico acquisito nella
primissima infanzia, quando ciò che più tardi si differenzierà come
istinto sessuale, vive ancora e lievita confuso nei primi conati af¬
fettivi e fantastici. Importa insomma osservare come in F. non af¬
fiorino grandi spaventi – forse gli spaventi provati lei li trasforma
in altro, vale a dire li dimentica – ma la vita sensitiva si sia invece
allargata in un limbo & angosce, di capacità cioè d’inventare e
aspettarsi misteriose sventure solitarie, le cui sofferenze sfuggono
a una chiara definizione e consistono appunto di un’atmosfera, di
una tonalità dell’anima. È ancora necessario ricordare che, benché
intellettualmente non inerte, F. ha di proposito limitato la sua vi¬
ta contemplativa al godimento della musica – gusto che suppone
appunto la capacità dell’angoscia, e secondo alcuni ne è il corretti¬
vo, secondo altri la sublimazione?
Ora, in accordo col quadro delle sue angosce, F. confessa di
aver provato fino ai dodici anni una scontrosa repulsione per ogni
« estraneo ». Come mai dalla bimba scontrosa e sensitiva (ciò che
rende duri e violenti è la sete di tenerezza), solitaria e fantastica,
impacciata e domestica, ha potuto nascere la donna « repandue » e
disinvolta, positiva e attiva, cristallina e cordiale, con cui credono
di scherzare scultori, musicisti e poeti? E soprattutto come mai la
bimba che s’incantava come il pollo davanti alla riga di gesso, e che
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[marzo 1941] 585
oggi ancora è rimasta la vergine che rabbrividisce all’idea dello
stupro – come mai proprio costei vive un ideale di socievolezza vi¬
rile e non ha amici che tra gli uomini e li ricerca con baldanza e li
domina senza sforzo, tanto che chi non la conosce con amore so¬
spetta in lei la « viveuse » e la tratta in sostanza come tale? La chia¬
ve del segreto sta in una sua ingenua confessione che si ha torto a
considerare semplice petulanza di signorinetta (Bobbio) o incauta
scusa di « devergondée » (le rivali mondane e, pare, i musicisti). E
la confessione è la banale frase, mille volte da F. ripetuta, che lei è
ima donna mascolinizzata. Essa viene a dire che F. tende a identi¬
ficarsi con gli uomini, anzi con un determinato tipo d’uomo che
evidentemente rappresenta il suo ideale. F. in questa sua vita dif¬
fusa e attiva è abbastanza ingenua da lasciar intendere che la con¬
duce per disperazione, per assurdo, o per scelta calcolata – che tor¬
na lo stesso. È questo in sostanza il secondo periodo della sua vita,
quel periodo che si contrappone, nel desiderio di F., a un non ben
confessato né precisato primo periodo in cui pare facesse tutto
l’opposto.
Ecco spiegato perché l’idea di una data crisi e conversione alla
nuova vita è inaccettabile. Quando si dice identificazione , si dice
complesso psichico represso che cerca il suo sfogo in un nuovo mi¬
to della condotta. E si dice quindi sdoppiamento, non successivo
ma contemporaneo. F. è tuttora la bambina delle angosce, proprio
mentre vive il suo mito della dinamica praticità.
Ecco come è andata. Come tutte le adolescenze di questo mon¬
do, quella di F. si è compiuta nella penosa e umiliante consapevo¬
lezza del sesso. Poche cose sono altrettanto tristi che la sudicia,
smaniosa e inesorabile scoperta del destino sessuale della carne, in
quegli anni che nulla ancora dei suoi possibili compensi si conosce.
Inoltre, F. non ebbe in quegli anni l’inevitabile crisi mistica che di¬
strae dal sesso (in realtà ne è una semplice tappa) e scarica la piena
delle indignazioni e delle rivolte in una dolce atmosfera del cuore
e della coscienza. Non è strano che con tanta capacità di sentire
V angoscia – lo stato tipicamente prereligioso – F. non abbia senti¬
to almeno per un anno, per sei mesi, il trasporto religioso? Non è
affatto strano e, se vorremo ricordare la sua esperienza dei dieci an¬
ni – il confessore che la rivoltò insegnandole le sudicerie – capire¬
mo come proprio la sua angoscia sia nata e restata nella sfera ses¬
suale, naturalmente come ambivalenza – orrore e insieme smania
del contatto umano, scontroso riserbo fisico e insieme sofferenza
della solitudine. Oggi ancora, che pure conosce meglio sé stessa e
gli altri, F. continua a rabbrividire all’idea dello stupro – naturai-
mente in forme romanzesche e caricate. Questa è insieme la più
antica e la più nuova delle sue angosce. Parlandone, diventa persi¬
no sincera e dimentica il mito della mascolinizzazione. O meglio,
scopre di questo mito il volto vero: identificazione nata da istinto
represso. Che cosa teme F. nello stupro? Scherzando, lo immagina
con tutto un corteggio di orrori – rivoluzione e guerra civile -, ma
io sospetto che essa lo tema allo stato puro nella sua semplice ne¬
cessità fisiologica. Essa è insomma nella condizione di quei giova¬
notti che non sanno risolversi a « livrer leur force à une femme »,
nella condizione cioè di un suo amico di cui parla sovente, V. La
strage, il sangue, le mitragliatrici, che nelle sue sarcastiche fantasie
dovrebbero accompagnare la cerimonia, sono anche qui un mito di
una più semplice e umana ripugnanza: F., cosi come V., non può
rassegnarsi all’idea di subire su di sé la rivelazione della realtà di
un altro sesso. Ciò è per lei pura angoscia.
Bisogna insistere. F. non ha paura , non teme il dolore (ricorda¬
re la faccenda degli allarmi), se anzi pensa a sposarsi pensa subito
ai figli (altra prova che non è ancora riuscita a vedere nel sesso una
possibile realtà voluttuosa): quello che teme è l’insulto fatto al
suo narcisistico riserbo, è il violento infrangersi della sfera di ango¬
scia solitaria che possiamo rintracciare fin nella sua avventura in¬
fantile con Pinterruttore o nella sua comprensione per il metafisico
orrore delle piante immobili. Un altro esempio: lo stesso orrore F.
Pha provato per un certo bacio violento, che forse fu per lei il solo.
A questo punto si comprende meglio, nella sua malinconica
realtà, il movente di quell’identificazione con l’altro sesso.
Un giovanotto che entri nella vita cercando sistematicamente
compagnia femminile, non per farci all’amore ma per farsene un
modello e risentendone l’influsso nei gusti, nelle pose, negli umo¬
ri, è un omosessuale che si ignora. Potrà più tardi magari sposarsi
e diventare marito e padre felice, ma ciò non toglie che in partenza
egli tendesse a tutt’altro. Si sarà salvato forse senza saperlo – per
un caso, per un incontro fortunato; ma sulla lama di rasoio c’è pas¬
sato, e il suo destino era un altro.
Bisognerà dire lo stesso di una ragazza che mostri un gusto riso¬
luto della compagnia maschile e se ne faccia un ideale di vita ases¬
suale. Nei due casi è cominciato un processo d’identificazione col
sesso opposto, ed è ovvio come – scoppiando l’occasione che in¬
franga le ultime inibizioni della coscienza e dell’abitudine – acca¬
drà die il giovane femminizzato e la ragazza mascolinizzata trove-
ranno concepibile liberare attraverso un commercio omosessuale
Tistinto invertito – dato che il sesso a loro complementare sarà or¬
mai il proprio. Va da sé che gli individui che giungono alla dichia¬
rata omosessualità sono altrettanto rari rispetto ai tendenziali co¬
me sono rari i casi di assassinio consumato rispetto agli assassini
potenziali (chi di noi non ha sognato almeno una volta di ammazza¬
re qualcuno?) Quest’indagine – sia chiaro – non mira a scoprire
in F. un destino inesorabile, ma soltanto a rintracciare in lei una
tendenza, a chiarirle il possibile significato, che forse le sfugge, di
un suo atteggiamento di per sé innocente.
Tuttavia, l’inversione omosessuale è cosa tanto violenta che
non basta a provocarla uno stato d’angoscia diffusa, ma – insegna
la psicanalisi – le occorre un trauma psichico ben definito. Esiste
questo trauma nel passato infantile di F. ? Tutto il problema è qui,
e naturalmente potrà rispondervi soltanto F. scavando in sé stessa.
Se vorrà farlo, F. dovrà ficcare gli occhi chiari — questo corag¬
gio non le manca – nella nebulosa infantile dei suoi rapporti coi
genitori. La sua attuale sistemazione familiare è, sotto questo ri¬
spetto, ambigua. Predilige la madre e osteggia il padre. Se si sco¬
prisse che al tempo delle prime angosce F. cominciò con un attac¬
camento morboso per il padre […] 1 2 3 si avrebbe chiara la ragione
della sua attuale frigidità — ostentata? – verso tutti gli uomini. Ma
bisognerebbe in questo caso ammettere che l’ideale maschile di F.
è tuttora inconsciamente rappresentato dal padre dei suoi primi an¬
ni — ammissione azzardata, […] \
l’Antologia di Spoon River. Sono i primi anni ’40, la futura “Nanda” ha 26 anni, e il libro superproibito, come lo definirà lei, glielo ha passato proprio Cesare Pavese, che si occupa dell’opera di Edgar Lee Masters dal 1930.
Proprio la passione per lo studio e la letteratura, ben più dell’amore non corrisposto di Pavese per Fernanda (già innamoratissima del futuro marito Ettore Sottsass, per il quale disse no per ben due volte, nel ’40 e nel ’45, a Pavese che la chiedeva in sposa), emerge dalla lettera e dalle corrispondenze che pubblichiamo qui. Dove si vede, è vero, il giovane Cesare «geloso come un gorilla», ma anche, ad esempio nel biglietto del ’41, l’esortazione senza appello a «studio e diligenza». Altri esempi sono nei Diari della stessa Pivano, quando l’autrice ricorda che «Pavese cercava di farmi diventare un’intellettuale», o quando elenca gli articoli dello scrittore sulla rivista «La cultura», da lei divorati, o infine in altri inediti di Pavese in cui lo scrittore esorta Fernanda allo «studio, studio, studio». Ma è soprattutto in questo inedito, datato 11 gennaio ’43, che l’incitamento dello scrittore si dispiega con le parole del mentore. È preoccupato, Pavese, per il richiamo alle armi appena ricevuto: ma tratta l’argomento con ironia, e si occupa invece di Fernanda. La quale certo incarnava il suo ideale di donna, «preziosa in un essere ignorato» (Il mestiere di vivere, Einaudi), ma che lo colpiva per l’intelligenza e la differenza dalle «ragazze qualsiasi» (Vita attraverso le lettere, Einaudi). In questo inedito, dunque, egli fornisce alcune istruzioni sulla traduzione dell’Antologia di Spoon River, la storica traduzione della Pivano che uscirà in quello stesso ’43, insieme rassicurando («farò tutto io qui») e invitando alla cautela. Ma ciò che «preoccupa di più» Pavese è l’atteggiamento dell’ex allieva, amica e promettente studiosa: una «malinconia» che certo, in altri modi, era condivisa da tutti i giovani intellettuali d’allora, oppressi dal regime, dalla guerra, dalla povertà e da un isolamento che non era soltanto personale.
Tre biglietti autografi di Pavese (foto Marco Fiumara)
Pavese mostra tutto il coraggio di una generazione cresciuta tra difficoltà e censure, e sa vedere la novità di ciò che ha davanti, in questa donna autonoma e capace. Qui quasi egli prefigura il modo in cui la donna italiana, non solo Fernanda, dovrà uscire dai ruoli mediocri imposti dall’epoca e dal fascismo. «È sola e disagiata», scrive Pavese, «ma può studiare e lavorare», le spiega. E ancora: «Non se l’intende coi Suoi, ma studiando e lavorando si prepara il modo di farsi un’indipendenza». Un’indipendenza che sarà proprio quella della Pivano, vivacissima animatrice della cultura, scopritrice di talenti, ponte tra l’America della Beat Generation e l’Italia, e molto altro. Un futuro che prima di esistere nella realtà, esiste brevemente già qui, nelle poche righe di uno scrittore che lievemente, ma fermamente, dà l’esortazione e la fiducia che può venire solo da un maestro.
A Fernanda Pivano, Mondovì Breo.
[Roma,] domenica 30 [maggio 1943]
Cara Fern,
la Sua lettera mi ha molto commosso e se potessi prenderei subito il treno per provarLe che non è vero che la circondi il gelo e l’ostilità. Ma non capisco perché si trovi tanto male proprio adesso che sa di poter lavorare nove ore al giorno e quindi pressoché mantenersi. Non ha sempre aspirato all’indipendenza? A meno che Le succeda come a tutti: una volta ottenutala, non sa più che farne. Si ritorna cioè a quanto Le ho sempre consigliato: si faccia una vita interiore – di studio, di affetti, d’interessi umani che non siano soltanto di «arrivare», ma di «essere» – e vedrà che la vita avrà un significato. Io non ho potuto muovermi anche perché abbiamo avuto i questurini in casa per parecchio tempo – una nostra impiegata è stata arrestata – e s’immagini le grane.
Cara Fern, la solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e «donando» invece di «ricevere». (È la solita sacrosanta predica). Non che io aneli di essere quello a cui Lei dovrebbe donare – tanto più che i doni che Lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri.
Fin che uno dice «sono solo», sono «estraneo e sconosciuto», «sento il gelo», starà sempre peggio. È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto.
La nostra posizione qui è molto precaria. Il padrone ogni tanto fa progetti per riportare la baracca in Piemonte – che non mi dispiacerebbe. Ma intanto – tira e molla – non faccio più niente e non ho più pace.
La smetta con quella stupida storia dell’assegno. Pensi piuttosto a tradurre l’Addio, e con l’assegno si comperi un monopattino.
Coraggio e arrivederci.
Lo scambio epistolare tra i due risulta davvero prezioso per ricostruire il disagio (soprattutto di lui) e la voglia di riscatto e indipendenza di genere (di lei) in un contesto storico ben delineato: quello della censura fascista e della guerra. La prima lettera è datata 22 agosto del 1940, l’ultima luglio 1945.
Pavese appare «geloso come un gorilla»: a “Nanda” lo legano due forme d’amore, quello passionale e quello per la letteratura. Per questo non smette di esortarla a «studio e diligenza» e «studio, studio, studio».
«Cara Fernanda, che lei è cattiva ed egoista l’ho sempre saputo, ma neanche io non scherzo e quindi sono disposto a correre il rischio. Ma parliamo di cose più decenti, si è decisa o no a studiare?». «Pavese cercava di farmi diventare un’intellettuale» annota la Pivano nei Diari.
Li lega l’amore per la letteratura dicevamo: «La ringrazio dei programmi – le scrive il 19 ottobre 1940 – La telefonata di ieri mi ha aiutato a tornare alla poesia. Le offro i versi con lo stesso cuore con cui in agosto Le ho offerto i primi».
Lui si atteggia a mentore della giovane mentre, forse, avrebbe voluto solo abbandonarsi al sentimento. C’è uno scritto inedito, datato 11 gennaio 1943, in cui, anziché palesare la propria preoccupazione per il richiamo alle armi che aveva appena ricevuto, è in pena per lei che incarna il suo ideale di donna «preziosa in un essere ignorato» (Il mestiere di vivere, Einaudi) e che spiccava per quella vivace intelligenza che la rendeva tanto diversa dalle «ragazze qualsiasi» (Vita attraverso le lettere, Einaudi).
Nella lettera Pavese elargisce utili istruzioni sulla storica traduzione dell’«Antologia di Spoon River» a cui la Pivano stava lavorando e che sarebbe uscita in quello stesso anno: la rassicura («farò tutto io qui» riferendosi al trucco che escogitò per aggirare la censura fascista trasformando l’Antologia di Spoon River in un’inattaccabile “Antologia di S. River”) e la invita alla cautela.
«11 gennaio 1943 – Cara Fernanda, ricevo le due lettere, quella della malinconia, e quella su Spoon River e sul mio richiamo. Per S. R. farò tutto io qui, ma non s’illuda troppo presto perché vorranno vedere le bozze e potranno ritornare sulla decisione. Per il richiamo è una notizia del giornale, che dal 1° al 15 febbraio chiameranno tutti i laureati in congedo del 1923 e precedenti, per utilizzarli. Io, a buon conto, ho già cominciato a muovermi per sapere, primo, se sarò chiamato; secondo, se lo sarò davvero; terzo, per guarire dall’asma. Stia certa che i miei desideri coincidono coi Suoi (…)».
Nanda lo preoccupa: sente che si è immalinconita, si è chiusa in se stessa.
«Mi preoccupa di più la Sua malinconia e il tono di bestia condotta al macello da Lei assunto. Perché? È sola e disagiata, ma può studiare e lavorare; non se l’intende coi Suoi, ma studiando e lavorando si prepara il modo di farsi un’indipendenza; non Le sono vicino a farle prediche, ma gliele faccio da lontano, e tanto più meditate e inesorabili, e assisto i Suoi lavori e insomma non sono in Polinesia (…)».
In realtà, l’isolamento della Pivano non è tanto una condizione personale, ma rappresenta la reazione egotica che molti intellettuali oppongono alla condizione di soffocamento a cui la guerra, il regime, la povertà li costringono.
Parla anche un po’ di sé Pavese: «Pensi che qui soffro il freddo come a Mondovì. Siamo in quattro in una casa, anzi cinque, tre uomini e due donne; viviamo studentescamente; si mangia non male; io giro tutto lacero e scalcagnato, e a Torino dovrò venire certo uno di questi giorni, non fosse che per rifornirmi di abiti. Da Torino passerei a Mondovì (…)».
Poi prende coraggio e le lancia una proposta anche piuttosto audace: «Faccia sì che il primo incontro avvenga tra noi due soli, perché vorrò abbracciarla e baciarla. Ho deciso. Ho trovato molti complimenti per «Il Mare» – (l’unico racconto scritto da Pavese, incluso in Feria d’agosto) – che pare abbia colpito tutta Roma, ma io vivo isolatissimo, anche perché a girare di notte su questi maledetti autobus e circolari, dove non si capisce niente, non mi pigliano certo. Cara Fernanda, si sta meglio con Lei a Torino, e anche a Mondovì. Stia allegra. Pavese».
Nelle lettere a Nanda ritroviamo un Pavese capace di atteggiamenti contrastanti: in alcune prevale l’uomo innamorato, in altre assume un tono vagamente paterno, in altre ancora indugia sulle proprie debolezze mostrando una propensione analitica verso la quella incapacità oggettiva di creare un legame affettivo autentico e duraturo.
«Cara Fernanda – le scrive il 13 febbraio 1943 – durante il viaggio ho pensato molto alle mie cose e mi sono accorto di non essere più un ragazzino, perché se fossi un ragazzino avrei goduto e sofferto molto e pensato bei pensieri e schizzato poesie. (…). Anzi, mi sento padre. Di che cosa o di chi, non so bene, ma mi sento padre, responsabile e noioso e superato. Com’ero più mascalzone e intelligente a venticinque anni. Allora ho scritto un libro che nessuno stima un soldo, ma comunque non sarà più superato da nulla che io scriva.(…) La verità, Fernanda, è che divento egoista (…). Allora vada tutto all’inferno: vuol dire che neanche volendo si può più scrivere una bella cosa, né “essere felici” in compagnia. Fernanda, sono molto infelice. Tuttavia L’accarezzo con riserbo, e la prego di ringraziare ancora la mamma per quella levataccia delle 5 1/2 e l’uovo e tutto. Pavese».
La storia, l’amicizia finisce nell’immediato dopoguerra, Pavese nel diario il 26 ottobre del 1946 scrive per l’ultima volta:
“Do dentro al romanzo. La Piv. si è sposata stamattina. Sono raffreddato. Bene.”