L’amore per posta – Cesare Pavese e Fernanda Pivano

per Gian Franco Ferraris

Compito a casa
Tema: Descrivete come passate le vacanze e quali sono i vostri propositi per l’avvenire

Come sono belle le nostre passeggiate in bicicletta per i dintorni di Torino! Telefono tutte le mattine appena sveglio al mio amico Nando, e ci vediamo poi alle dieci e mezzo, ora nella quale scende infallibilmente. Mi piace quando lo vedo sbucare dal portone, quasi sempre con un vestito diverso dall’ultima volta, ma i colori che in lui preferisco sono il bianco e il rosso vivo, e trovo che gli stanno tanto bene. Allora inforchiamo le biciclette, e Nando, che é più ordinato di me, si rimbocca sempre i calzoni con cura. Ci dirigiamo verso i dintorni di Torino, e pedalando con quanto fiato abbiamo in corpo parliamo soprattutto dei nostri studi, perché noi durante le vacanze riprendiamo sovente in mano i libri, e a Nando in modo speciale piace ritornare con il pensiero ai bei giorni che trascorremmo in iscuola. Io frequento Nando perché so che da lui posso imparare mille cose buone: mai dalla sua bocca escono frasi sconvenienti né quelle sudicerie che purtroppo avvelenano l’anima di tanti ragazzi della nostra età. Con Nando parliamo invece di ricordi di scuola e dei nostri professori, e, pur sapendo, che non bisogna godere del male di nessuno, qualche volta facciamo grandi risate insieme, al pensiero di quei nostri compagni che, non avendo studiato durante l’anno, ora devono trascorrere le vacanze in una stanza buia a preparare gli esami di riparazione. Com’é bello essere stati promossi!
Ma Nando mi fa anche delle confidenze, specialmente dopo una lunga pedalata, quando balziamo di sella sul ciglio della strada, e ci sediamo su un muricciolo al margine del bosco, che é ormai il “nostro” muricciolo. Restiamo così sul margine della strada, e bene in vista, perché che cosa direbbero i passanti se ci vedessero scomparire tra le piante?
Del male bisogna evitare anche l’apparenza, e la gente é già troppo disposta a malignare. Se due ragazzi si nascondono, “ecco” dice il mondo “ne combinano qualcuna, chi sa una monelleria o anche qualcosa di più grave”. E noi abbiamo deciso, una volta per sempre, di non nasconderci e di fare ogni cosa alla luce del sole.
Ma dicevo che Nando mi fa delle confidenze e io gli faccio le mie, e questo ê uno dei momenti più belli dell’amicizia.

Nando mi dice cose che mi lasciano sbalordito, perché intelligente e pieno di cuore com’è, vorrebbe tranquillizzare i suoi genitori e mettere se stesso al riparo dai pericoli della vita. Insomma, parla di sposarsi e gli pare di aver perso già troppo tempo. Io gli dico che aspetti almeno un altr’anno e finisca prima la scuola, ma Nando comincia ad affannarsi e dice che vuol fare come dice. Io so bene che tutti noi ragazzi abbiamo di queste idee bizzarre perché stiamo appunto attraversando l’adolescenza che è già un’età piena di pericoli e di tentazioni, e fortunato chi se la può cavare come c’è la caviamo io è Nando! Ma l’idea di sposarmi, a me non era mai venuta. Gli domando allora sorridendo se già sa chi vorrebbe sposare e cerco di distrarlo come vuole l’amicizia, ma Nando si fa pensoso e i suoi occhi castani si abbassano al livello stradale: “È una scelta difficile, – mi dice, – si tratta di tutta la vita”. E mi espose una sua idea che mi colpì. Egli vorrebbe che nella scuola accanto ai corsi soliti, che frequentiamo ce ne fosse anche uno di fidanzamento, con un professore buono e paterno, come quello che c’impartisce le lezioni d’italiano o come il nostro signor preside, e che il programma fosse distribuito in modo che, senza distrarre gli scolari dalle altre materie, alla fine dell’anno chi si è applicato con profitto e volontà si trovasse sposato. “Pensa come sarebbe bello!” Mi dice. Non vorrebbe però professoresse, e qui lo approvo, perché le donne di qualunque condizione o età non possono che fare del male ad un adolescente. Qui devo confessare un mio pensiero, e lo faccio perché il nostro professore non si stanca di inculcarci la sincerità, soprattutto con noi stessi. Il pensiero è questo: che vorrei cambiare sesso ed essere una compagna di Nando per poterlo sposare io, tanto gli voglio bene. Ma penso che, se fossi una ragazza, non avrei l’occasione di andare con lui in bicicletta, e allora è meglio che sia così e che siamo amici. Tanto più che Nando cambierà certo idea, perché ha tanta vita ancora davanti a sè, e gli dico allora di pensare a studiare, che così compenserà la famiglia ed i professori dei sacrifici che fanno per lui, e un bel giorno saranno i suoi genitori a trovargli una moglie. Allora Nando fa le boccacce, ma è tutto contento.
Com’è bello attraversare in bicicletta la campagna! Le margherite dei prati ci ammiccano e c’invitano, la strada corre liscia tra il verde, e il cielo azzurro riflette la serenità dei nostri pensieri. Qualche volta passano altri gitanti – soldati, operai o famigliole – e sempre quando ci vedono gettano un urlo giocondo che ha il potere di far chinare Nando sul manubrio e di farlo arrossire di felicità.
Ma mi accorgo che voi non conoscete ancora Nando e, prima di concludere, voglio descriverlo. È un ragazzo simpatico e intelligente che, visto di profilo, pare già un uomo fatto, e di faccia invece è giovanissimo, perché ha due grandi occhi che si stupiscono sempre. È sempre molto pulito e ravviato, non come me che dimentico qualche volta di pettinarmi. Solamente a vederlo, io mi sento più buono e volenteroso, e prometto che per essere degno di lui sarò sempre studiosissimo e quest’altr’anno, se il diavolo non ci mette la coda, farò un esame coi fiocchi! Così potremo di nuovo trascorrere insieme le nostre vacanze e impareremo tante cose e saremo felici.

Cesare Pavese – Torino, 22 agosto 1940

Scherzoso tema scolastico, scritto da Pavese su fogli protocollo a righe coi margini, che mette in gioco le conversazioni con Fernanda (Nando) Pivano conosciuta/frequentata quella estate. Traspare l’affettività di Pavese e anche quella “sessuofoba” di Fernanda Pivano. Anni dopo Pavese chiese a Fernanda Pivano di sposarlo, senza aver mai tentato di baciarla nè di sfiorarle la mano.

La Pivano peraltro, stimolata da Pavese, in quegli anni intraprese l’attività di traduttrice che iniziò facendo conoscere l’antologia di Spoon River (1943

Pavese nominò per la prima volta Fernanda Pivano nel suo diario il 26 luglio del 1940 con il nomignolo di Gognin, che in piemontese vuol dire “musetto” ,

Il modo del Gôgnin di «parlare a vanvera» smettendo capricciosamente un argomento e riprendendolo poi a gusto, è diventato uno stile, e diventa suo amico chi lo accetta e lo adotta. Lei se ne compiace e se ne fa un vezzo. Potenza dello stile.

ma in realtà si erano già conosciuti nel 1935, quando il ventiseienne Cesare Pavese viene nominato  supplente di italiano del Liceo Classico “D’Azeglio” di Torino, tra le allieve c’è Fernanda Pivano. È lei stessa a raccontare nei Diari 1917  1973 (editi da Bompiani) il primo incontro con quel professore «giovane giovane» .

“Era diverso dagli altri: lui ci faceva leggere i canti di Dante e ce li spiegava, gli altri insegnanti ce li facevano solo imparare a memoria. Ricordo, come se fosse ieri, le lezioni su  Guinizelli. Lui era talmente innamorato della trasformazione artistica di questo autore che spiegandocelo ci lasciava senza fiato. E io mi sono appassionata, in modo forse sproporzionato, agli autori che Pavese leggeva. Li leggeva ad alta voce, in modo incantevole, fino a farli entrare nel cuore.”

Accusato di antifascismo, Pavese venne arrestato il 15 maggio del ’35 e poi condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro.

Si incontrarono di nuovo nel 1939 o nel 1940 sempre Fernanda Pivano nel diario scrive:

“…Vivevo dalla cintura in su, anche se poi avevo schiere di pretendenti, sapete, ero bella, virtuosa, e ancora non si diceva che virtuosa era uguale a donna noiosa.
Insomma un giorno Cesare Pavese viene a trovarmi in piscina con Norberto Bobbio. Avevo un bel costumino di seta rossa, carino, che veniva da Vienna, e loro mi hanno chiesto che cosa facevo. E io: “Sono stata bocciata insieme a Primo Levi”. E giù a ridere come pazzi tutti insieme, perchè era una cosa ridicola. Da loro prendevamo voti alti, e poi vederci bocciare con dei due e tre, era una cosa strana. Allora Pavese mi ha chiesto: “Cosa avete fatto, come mai? Cosa ha scritto lei?”. E io: ” Ho detto che quando i soldati tornano dalla guerra non è vero che dobbiamo ringraziarli perchè hanno ammazzato il nemico. Ho detto che bisognava mettere dei fiori nei loro fucili, così non potevano più uccidere nessuno”.
In pieno impero etiopico non era il caso di fare un tema così. E poi Pavese ha detto: “Che cosa ha fatto all’università?” Ed io: “Ho chiesto una tesi di inglese. Me ne hanno dato una su Schelli, noiosa”. E lui: “Ma perchè non l’ha chiesta di letteratura americana?”. Ed io ho fatto la domanda fatale, che mi ha fregato per tutta la vita: “Che differenza c’è?” Allora lui si è messo a ridere e mi ha detto: “Lei non sa che io sono quello che ha introdotto in Italia la letteratura americana?” E io lì come un’oca.
Quella sera lui mi ha lasciato in portineria quattro libri che erano: Addio alle armi di Ernest Hemingway, Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters, l’autobiografia di Sherwood Anderson e Foglie d’erba di Walt Whitman. Lui non poteva fare una scelta più precisa, più giusta. E io quella sera ho aperto il libretto dell’Antologia di Spoon River alla pagina di Francis Turner dove diceva… non mi ricordo adesso la poesia a memoria… ma insomma diceva: “Io da bambino non potevo nè correre nè giocare perchè avevo avuto la scarlattina”. Oppure: “Un giorno baciando Mary con l’anima sulle labbra, l’animo d’improvviso mi volò via…” E io mi sono innamorata di questa cosa, Dio santo. E non sapevo niente di questa antologia, però me ne ero pazzamente innamorata. E senza dire niente a Pavese, mi ero messa a tradurla. Mai, in quel momento, avrei potuto immaginare di vivere facendo il lavoro del traduttore, non sapevo neanche che esistesse questo lavoro…”.

Iniziò così la lunga amicizia tra lo scrittore e la futura traduttrice. Per Pavese fu anche la storia di un amore non corrisposto, anche se pare soprattutto un amore per corrispondenza, un amore sublimato. Tra le numerose lettere che Pavese scrisse alla Pivano in quegli anni ne spicca una in cui, con acutezza e ironia, descrive se stesso:

Nella minuta a questo finale è stata aggiunta per tre volte e per tre volte cancellata la frase « sia come vuoi tu». Questa lettera porta la data del 5 novembre del 1940, Pavese confessa a Fernanda Pivano “Racconto, in questi fogli, cose vergognose, che lei capirà bene che non glieli do per nessun secondo fine. Glieli do per amicizia, perchè sono anche, e molto, Suo amico.” Aggiunse che “le docce fredde” bisogna darle soprattutto a se stessi. Di fatto è stata una maniera per giustificare e scusarsi di una lettera di qualche giorno prima che aveva inviato alla Pivano:

 

Analisi  di  P.

P. è senza  dubbio  un  uomo  insolito,  ciò  che  non  vuole  ancora

dire  un  uomo  che  valga.

Ha  i  tratti  più  evidenti  del  raté  –  mancanza  di  una  routine  sociale  e  facilità  a  disancorarsi  —  ma  ha  insieme  una  capacità  di  concentrarsi  su  un  singolo  oggetto  –  lavoro  o  passione  –  che  gli  ha  permesso,  pur  nel  disorientamento  intermittente,  di  realizzare  qualche  risultato  e  qualche  sicurezza  di  sé.

La  sua  tendenza  fondamentale  è  di  dare  ai  suoi  atti  un  significato  che  ne  trascenda  l’effettiva  portata;  di  fare  dei  suoi  giorni  una

galleria  di  momenti  inconfondibili  e  assoluti.  Nasce  di  qua  che,

qualunque  cosa  dica  o  faccia,  P.  si  sdoppia  e  mentre  pare  prendere

parte  al  dramma  umano,  altro  intende  nel  suo  intimo  e  già  si  muove  in  una  diversa  atmosfera  che  traspare  nelle  azioni  come  intenzione  simbolica.  Questa,  che  parrebbe  doppiezza,  è  invece  un  inevitabile  riflesso  della  sua  capacità  di  essere  –  davanti  a  un  foglio  di

carta  –  poeta.  Per  quanto  P.  sia  convinto  che  arte  e  vita  vanno  tenute  nettamente  distinte,  che  scrivere  è  un  mestiere  come  un  altro.

come  vendere  i  bottoni  o  zappare,  non  gli  riesce  di  prendere  la  sua

esistenza  altro  die  come  un  gigantesco  spettacolo  che  lui  redta.  Ma

chi  paragona  la  vita  a  uno  spettacolo,  solitamente  sottintende  che

lo  spettacolo  non  va  preso  sul  serio,  che  la  vita  è  una  menata,  e  cose

simili.  A  P.  succede  invece  di  recitare  terribilmente  sul  serio,  di

scatenare  in  ogni  scena  importante  della  sua  vita  tanta  pienezza

passionale  e  tanto  fervore  di  chiarezza  rivelatrice,  che  in  sostanza

ha  tutta  l’aria  di  un  poeta  tragico  che  salga  tra  i  suoi  personaggi  a

uccidere  o  farsi  uccidere.

Ma  chi  dice  spettacolo,  dice  pubblico.  Qui  è  la  tara  oscena  e  inconfessata  di  P.  Da  studente  P.  in  una  sera  di  sbornie,  si  senti  cosi

trascurato  e  non  applaudito,  che  per  strada  fra  un  gruppo  di  amici

scelse  di  lasciarsi  cadere  in  terra  come  un  sacco,  al  solo  scopo  di

essere  lui  il  centro  dell’attenzione.  Ricordo  che,  rimesso  in  piedi  e

sostenuto,  piangeva  per  la  rabbia  di  non  essere  stato  abbastanza

«  pietoso  ».

Ora,  P.,  che  senza  dubbio  è  un  solitario  perché  crescendo  ha  capito  che  nulla  che  valga  si  può  fare  se  non  lontano  dal  commercio del  mondo,  è  il  martire  vivente  di  queste  contrastanti  esigenze.

Vuol  esser  solo  –  ed  è  solo  -,  ma  vuol  esserlo  in  mezzo  a  una  cerchia  che  lo  sappia.  Vuole  provare  —  e  prova  –  per  certe  persone

quei  profondi  attaccamenti  che  nessuna  parola  esprime,  ma  si  tormenta  giorno  e  notte  e  tormenta  queste  persone  per  trovare  la  parola.  Tutto  dò  è,  senza  dubbio,  sincero,  e  per  disgrazia  s’intrica

con  l’esigenza  espressiva  della  sua  natura  di  poeta.  P.  chiama  anzi

tutto  ciò  bisogno  di  espressione,  di  comunicazione,  di  comunione;

e  la  sua  mancanza,  tragedia  della  solitudine,  incomunicabilità  delle

anime,  e  via  dicendo.

Che  potrà  fare  un  uomo  simile  davanti  all’amore?  La  risposta

è  evidente.  Nulla,  cioè  infinite  cose  stravaganti  che  si  ridurranno  a

nulla.  Una  volta  che  sarà  innamorato,  P.  farà  esattamente  ciò  che

gli  detta  la  sua  indole  e  che  è  appunto  ciò  che  non  va  fatto.  Lascerà

capire,  innanzi  tutto,  di  non  essere  più  padrone  di  sé;  lascerà  capire

che  nulla  per  lui  nella  giornata  vale  quanto  il  momento  dell’incontro;  vorrà  confessare  tutti  i  pensieri  più  segreti  che  gli  passeranno

in  mente;  dimenticherà  sempre  di  mettere  la  donna  in  posizione

tale  che  essa  lasciandolo  si  comprometterebbe.  Questa,  che  è  la

prima  elementare  precauzione  del  libertino  (il  solo  che  applichi

con  impeccabilità  la  strategia  amorosa),  in  P.  invece  si  rovescia  addirittura.  P.  si  dimentica  d’innamorare  di  sé  la  donna  in  questione,

e  si  preoccupa  invece  di  tendere  tutta  la  propria  vita  interiore  verso  di  lei,  d’innamorare  di  lei  ogni  molecola  del  proprio  spirito,  di tagliarsi  insomma  tutti  i  ponti  dietro  le  spalle.  Cade  qui  a  proposito  la  sua  confessione  die,  quando  è  innamorato,  lui  vive  nella  fisica

impossibilità  di  avvicinare  altre  donne  –  debolezza  questa  che  nessuna  donna,  neanche  l’amata  perdona.  Perché  tanta  ingenuità?  E’ evidente:  P.  fa  sul  serio,  recita  sul  serio,  e  si  monta  come  l’attore

di  vecchia  scuola  o  come  quel  trageda  dannunziano  che  voleva  che

nemmeno  la  maschera  dorata  di  un  suo  Atride  fosse  di  «  metallo

vile  ».  Ecco  la  mania  di  assoluto,  di  simbolismo,  che  si  diceva  in

principio.  P.  gioca  ( plays )  fino  in  fondo  la  sua  parte  amorosa,  primo  per  il  suo  bisogno  feroce  di  usare  dalla  solitudine,  secondo  per

il  bisogno  di  credere  totalitariamente  alla  passione  che  soffre,  per  il

terrore  di  vivere  un  semplice  stato  fisiologico,  di  essere  soltanto

il  protagonista  di  un’avventuretta.  P.  vuole  che  ciò  che  prova  sia

nobile,  significhi,  simboleggi  una  nobiltà  sua  e  delle  cose;  diventi

un  idolo,  insomma,  cui  valga  la  pena  di  sacrificare  anche  la  vita,  o

l’ingegno  –  che  sa  di  avere  grande.

Ma  chi  gli  chiede  di  sacrificare  l’ingegno  o  la  vita?  Quale  donna,  chiede  a  un  uomo  di  perdere  assolutamente  ogni  staffa  e  ogni

puntello,  e  amarla  con  l’intensità  cosmica  e  inutile  di  un  temporale

d’agosto?  Quale  donna  se  non  la  vampi  E  difatti  P.  ha  il  dono  di

trasformare  verso  se  stesso  in  vamp  ragazze  che  non  se  lo  sognavano  neppure.  In  un  primo  tempo,  le  trasforma  in  vamp  e  si  fa  rovinare  tutto  il  rovinabile;  poi,  quando  le  macerie  sono  cadute  e  lui  si

ritrova  solo,  gli  accade  che  la  vamp  prova  rimorso  e  torna  a  cercarlo,  con  un  gesto  malinconico  e  materno.  P.  allora  si  vergogna  e  s’infuria,  e  ritorna  alla  sua  solitudine.  Naturale  tragedia:  tutti  gli  amori  ottiene,  o  può  ottenere,  P.  dalle  donne,  meno  l’unico  cui,  come

tutti  i  ratés,  lui  anela  veramente  dal  fondo  del  cuore:  l’amore  di

una  moglie.

Questo  desiderio  feroce  di  una  casa  e  di  una  vita  che  non  avrà

mai,  affiora  in  un’orgogliosa  sentenza  che  P.  pronunciò  un  giorno

nel  forte  della  sua  nota  e  ormai  famosa  passione.  «  Le  uniche  donne  che  vale  la  pena  di  sposare,  sono  quelle  che  non  ci  si  può  fidare

a  sposare  ».  Qui  dentro  c’è  tutto:  la  vamp  e  la  furia,  la  moglie  e  il

sogno  incrollabile.  A  questo  sogno  P.  è,  come  dire,  crocifisso,  e

niente  è  più  patetico  degli  scossoni  che  dà  per  schiodarne  le  mani.

È  perché  si  sa  inchiodato  in  questo  modo,  nell’impossibilità  sia  di

muoversi  che  di  ripararsi,  che  ogni  avvisaglia  di  nuova  passione  lo

fa  tremare.

P. ha una  forte  fantasia  e  gli  basta  rappresentarsi  se  stesso  in

un’immagine  dolorosa  –  come  questa  –  per  risentirne  fisicamente

le  torture.  Solitamente  accade  che  l’esasperata  sensibilità  dei  tipi

come  P.  ha  però  il  fiato  corto,  e  sia  le  fantasie  che  l’intera  passione

divampano  e  finiscono  presto.  Ma  P.  non  è  un  tipo  comune.  Anni

fa,  quest’immagine  della  croce  se  la  portò  nei  nervi  per  più  di  tre

mesi  continui ,  insieme  a  quella  che  lui  chiama  dello  sradicamento

–  il  senso  di  avere  il  petto  e  il  cuore  lacerato  e  sanguinante  per  lo

strappo  violento  delle  mille  radici  che  una  donna  vi  aveva  messo.

Così  accade  per  la  passione  nel  suo  decorso,  ed  è  del  resto  naturale. La stessa  esigenza  di  simbolica  nobiltà  che  vale  nella  genesi  degli  affetti  di  quest’uomo,  si  fa  valere  nella  loro  forza  di  durata  e,

del  resto,  P.  getta  loro  inconsapevolmente  tali  basi,  che  a  fatica  li

può  distruggere  l’acido  stesso  della  loro  dimostrata  inutilità.  Qui

occorre  tener  presente  che  in  P.  una  passione  s’intrica  con  la  sua

poesia,  diventa  carne  di  poesia,  e  come  tale  gli  s’identifica  col  linguaggio,  con  lo  sguardo,  col  respiro  della  fantasia.

In  un  lungo  periodo,  P.  raggiunse  una  sua  stoica  atarassia  attraverso  la  rinuncia  assoluta  a  ogni  legame  umano,  se  non  quello,

astratto,  dello  scrivere.  Si  sentiva  come  intontito  e  chinava  il  capo,

e  cercava  di  scrivere.  Ma  di  mese  in  mese  e  di  anno  in  anno  scriveva  sempre  meno:  la  vita  in  lui  si  prosciugava.  Diventava  un  fantasma.  Pure  P.  teneva  duro,  perché  sapeva  che  un  franamento  verso

le  creature,  verso  qualunque  creatura,  sarebbe  stato  soltanto  una

ricaduta,  non  una  rinascita.  Altro  suo  detto  memorabile  è  «  tutto

o  niente  »  –  «  Aut  Caesar  aut  nihil  »  –  P.  non  si  ferma  a  mezza

strada.

Invece  avvenne  il  franamento,  e  P.  cercò  di  fermarsi  a  mezza

strada,  e  non  ci  riuscì.  Adesso  sconta  ogni  istante  della  fittizia  solitudine  che  si  era  creata.  La  vita  si  vendica  con  una  solitudine  vera.

Sia  come  vuole  la  vita  .

[Torino,]  20  ottobre  1940

Analisi  amorosa  di  F.

Una  ragazza  che  non  conosca  ancora  l’amore  –  siamo  franchi,  il sesso  –  ha  un  segreto  che  nessuno,  nemmeno  lei,  può  penetrare.  E’ come  un  uomo  che  non  abbia  mai  conosciuto  il  pericolo  e  ignori quindi  le  proprie  reazioni  alla  paura  e  all’entusiasmo:  è  una  castagna  chiusa.

Ma  è  vero  che  F.  non  conosce  l’«  amore  »?  Certamente  non  ne

conosce  l’ultima  istanza,  ma  un  suo  atteggiamento  davanti  al  problema  esiste,  e  con  ciò  s’intravede  qualche  lineamento  del  suddetto  segreto.

Dai  suoi  discorsi  si  coglie  imo  sforzo  continuo,  penoso,  di  raffigurarsi  un’esistenza  in  cui  il  sesso  non  esista.  Se  fosse  una  comune

ragazza  «  en  fleur  »  si  potrebbe  dire  che  il  suo  è  soltanto  il  brivido

prima  del  tuffo,  e  pace.  Ma  F.  non  è  ima  ragazza  comune.  Anzitutto  ha  una  lunga  esperienza  –  cercata?  –  di  cose  d’amore  sociali,

e  –  ciò  che  più  conta  –  si  è  costruita  un’esistenza  dove  vale  il  suo

senso  della  responsabilità,  dove  prende  posizione  e  fa  e  decide  e

svolge  una  parte  non  passiva.  Non  penso  all’esistenza  «  mondana  »

che  a  tutte  le  ragazze  della  sua  condizione  tocca  in  sorte,  ma  a  quella  organizzativa,  a  quella  selettiva  di  gusti  e  attività  spirituali

(sport,  musica,  lezioni),  a  quella  affettiva  (dramma  familiare).

Nelle  sue  uscite  c’è  una  costante.  Dice  di  sé  che  è  mascolinizzata,  dice  che  il  padre  va  messo  in  collegio,  sostiene  che  tra  uomo  e

donna  esiste  amicizia,  ragiona  di  casi  amorosi  altrui  con  spregiudicata  chiarezza,  canzona  la  «  femminilità  ».  Tutto  ciò  non  è  baldanza da  «  fillette  »,  per  la  ragione  che,  benché  ostentato,  non  esclude  la

tranquilla  confessione  di  altre  cose  notevoli:  «Non  tengo  gatti,

perché  soffrirei  troppo  a  perderli  »;  «  Tre  sono  gli  uomini  che  mi

hanno  voluto  bene  veramente»;  «Sono  fragile,  umida,  e  so  che

qualcuno  mi  deve  plasmare.  Sarà  questo  quell’uomo»;  ecc.  C’è

una  seria  e  onesta  comprensione  femminile  in  queste  frasi;  non  si

possono  liquidare  come  sentimentalismo  scherzoso.

Più  del  resto  significativa  è  la  confessione  sui  gatti.  C’è  qui  il

tentativo  —  e  il  bisogno  sincero  –  di  crearsi  un  «  mito  »:  tanto  che

  1. parla di  chi  le  ha  voluto  bene,  col  tono  con  cui  parla  di  queste

bestie.  Naturalmente  scherza,  ma  gli  scherzi  –  che  sono  istanti  di

distensione  e  insieme  di  «  routine  »  –  dicono  più  che  non  le  frasi

meditate.  F.  ha  il  terrore  di  attaccarsi  a  una  creatura.

È  importante.  Ecco  intanto  confermato  che  il  suo  «  shrinking  »

non  è  un  lezioso  derivato  sessuale  della  verginità,  ma  una  penosa

confessione  di  debolezza,  di  paura  che  per  lei  amore  voglia  dire

perdita  delle  staffe,  tuffo  non  nell’ignoto  (è  qui  il  punto)  ma  nel

meditato  calcolato  fantasticato  vortice  della  passione.  Non  è  questa  la  voce  dell’inesperienza,  ma  piuttosto  consapevolezza  della  capacità  di  una  dedizione  assoluta.  Siccome  all’amore  è  da  lei  riconosciuto  un  valore  altissimo,  totalitario,  si  trema  all’idea  di  cascarci.

Se  F.  fosse  ima  «  viveuse  »,  la  sua  sarebbe  un’applicazione  dell’exw oi>x  —  «  habere,  non  haberi  ».

Ma  F.  non  è  una  «  viveuse  ».  O  sì?  E  questo  il  problema  che

soltanto  il  gran  passo  potrà  risolvere.  Ci  sono  argomenti  nettissimi

contro  quest’idea:  la  sua  educazione  anzitutto,  la  sua  serietà  interiore,  il  suo  senso  del  valore  totalitario  di  una  persona,  ecc.  Ma  ce ne  sono  anche  in  favore:  la  sua  tendenza  a  fare  degli  schiavi  (quell’aneddoto  della  figlia  della  pettinatrice  di  Gen.  !  ),  la  sua  vivacità intellettuale,  il  suo  gusto  del  gioco,  e  anche  proprio  il  senso  del

grande  valore  di  sé  unito  a  una  sfiducia  nella  «  realizzabilità  »  di questo  valore.

Come  finirà  F.  ?  Per  lei,  più  che  per  un’altra,  ciò  dipende  da  chi

incontrerà.  Nel  senso  che  più  ima  macchina  è  complessa  più  è  delicato  il  gioco  delle  sue  risposte  a  un  agente  esterno.  Una  comune  ragazza  di  famiglia  si  sa  benissimo  come  finirà  –  potrà  essere  più  o

meno  beata  o  infelice,  ma  ciò  non  cambierà  di  nulla  il  «  senso  »  della  sua  persona,  la  sua  figura  sociale.  F.  no.  F.  potrebbe  diventare

una  dolce  padrona  di  casa,  magari  birichina  o  seccante,  così  come

potrebbe  farsi  solitaria  virago,  o  donna  dello  scandalo,  o  vergine  –

rossa  o  nera,  non  importa.

Sinora,  la  sua  soluzione  che  «  il  sesso  non  esiste  »  –  mentre  pure  ne  parla  sempre  –  è  una  prima  confessione  di  fallimento,  di  scontento.  È  evidente  che  F.  cerca  un  uomo  che  le  sappia  tener  testa,  e

che  per  ora  –  nessuno  dei  suoi  amici  escluso  –  non  l’ha  trovato.  La

delusione  appare  persino  nella  sua  vita  di  casa.  Suo  padre  è  il  tipico  uomo  che  non  le  sa  tener  testa,  e  niente  è  più  malinconico  dello

stupore  che  le  fa  […] .  La  sua  pena  gaia  e  continua  è  di  ritrovare

nel  ricordo  –  e  nel  presente  –  tutti  innamorati  che  chiedono  esclusivamente  di  abbandonarsi,  di  abdicare  dalla  loro  virilità,  di  esserle  schiavi.  Ma  F«  impasse  »  in  cui  si  trova,  risulta  dal  fatto  che  i  pochi  non  disposti  ad  abbandonarsi  si  sono  dimostrati  superficiali  o violenti,  […] .

In  questa  vicenda  la  figura  più  enigmatica  è  la  madre.  In  essa

forse  F.  vede  una  prefigurazione  della  sua  stessa  possibile  sorte  dopo  un  eventuale  matrimonio  col  «  wrong  man  ».  E  la  madre,  non lagnandosi  mai  del  suo  stato,  convince,  senza  saperlo,  F.  che  dunque  questa  è  la  sorte  naturale  delle  donne  sposate;  e  di  qua  si  rafforza  la  decisione  di  F.  a  non  abbandonarsi  mai  a  nessun  uomo.

Come  dire:  «  se  la  mamma  che  è  cosi  buona,  cosi  comprensiva,  cosi

soggetta,  è  riuscita  cosi  poco  col  suo  matrimonio,  come  potrò  riuscire  io  che  sono  convinta  di  essere  cattiva,  unilaterale  e  ribelle?  »

Una  semplice  frase  detta  una  sera  dalla  madre  mi  ha  colpito.  «  Gli

uomini  fanno  tutti  le  corna  alla  moglie  ».  Lo  diceva  con  quel  tono

rassegnato  e  persuaso  che  è  privo  anche  di  risentimento  –  cosi  parlava  anche  la  mia  mamma  –  e  molto  dell’inquietudine  e  del  dissidio

di  F.  deve  nascere  da  questi  placidi  e  malinconici  toni  della  madre.

Come  succede  a  chi  è  affezionato  veramente  a  qualcuno,  F.  confronta  tutti  i  suoi  progetti  dell’avvenire  all’idea  che  si  fa  della  madre,  e  la  reazione  è  sempre  deprimente.

Cosi  è  nata  la  caratteristica  posa  «  attiva  e  pazzerellona  »  che

pare  il  programma  di  F.:  difesa  istintiva  contro  l’estraneità  del

mondo,  e  specialmente  del  mondo  maschile.  Ma  qui  è  implicito  un

errore  che  tutti  questi  «  miti  della  condotta  »  recano  con  sé.  Ecco:

F. in sostanza  cerca  di  vivere  e  fare  di  sé  un  personaggio  che  incarni  la  possibile  figura  dell’uomo  che  domani  potrebbe  amare.  Lo vorrebbe  spregiudicato,  pazzerellone,  squisito,  «  virile  »  come  s’immagina  di  esser  lei,  ben  sapendo  che  le  più  solide  virtù  (capacità  di soffrire,  tenerezza,  comprensione,  ecc.)  come  non  mancano  sotto

la  scorza  a  lei,  cosi  non  potranno  mancare  sotto  sotto  nemmeno  a

lui.  In  questo  modo  cerca  di  placare  la  paura  istintiva  della  grande

passione  supponendo  un  essere  per  cui  la  grande  passione  sia  una

virtù  segreta  come  per  lei,  e  il  cui  esterno  le  sia  gradito  come  senza

dubbio  a  lei  piace  un  mondo  sé  stessa  nello  specchio  e  nell’esame

di  coscienza  serale.  Ora,  l’errore  implicito  in  tutto  ciò  è  che  F.

scambia  per  qualità  virili,  delle  deliziose  e  in  lei  irresistibili  qualità

femminili.  F.  crede  che  gli  uomini  siano  nati  per  l’azione,  e  cerca

di  imitarli.  Crede  che  siano  esseri  utilitari  e  pratici,  e  cerca  di  imi¬

tarli.  Crede  che  tendano  a  organizzarsi  e  vivere  «  socialmente  »  e

cerca  di  imitarli.  Succede  invece  che  i  veri  uomini  non  sono  attivi

ma  contemplativi,  non  sono  pratici  ma  sognatori  dell’azione,  non

sono  «  sociali  »  ma  —  almeno  i  migliori  —  sono  solitari.  Potrà  succedere  cosi,  che  sposi  –  il  più  tardi  possibile  –  un  pupazzo,  magari

un’aquila,  che  non  sa  che  cosa  sia  la  solitudine  –  virtù  essenzialmente  maschile  –  e  proprio  per  questo  non  s’accorge  del  tesoro  che ha  in  casa.

Se  ho  sbagliato,  mi  scusi.  CP (Autografo  presso  la  destinataria)

Le  paure  di  F.

 

F. lascia intendere  sovente  di  aver  avuto  due  periodi  nella  sua

vita,  un  prima  e  un  poi,  un  allora  e  un  adesso,  e  naturalmente  non

spiega  di  piu.  Ama  molto  dualizzare,  cioè  lasciar  scorgere  in  ogni

faccia  in  ogni  periodo  della  sua  indole  e  attività  due  momenti  con¬

trastanti,  segnati  da  una  crisi:  quand’era  a  Genova  e  adesso  che  è

a  Torino,  quand’era  ricca  e  adesso  che  è  povera,  quand’era  intellet¬

tuale  e  adesso  che  è  attiva,  quand’era  sciocchina  e  adesso  che  è  ma¬

scolinizzata,  ecc.  La  crisi  in  questione  è  da  lei  sostanzialmente  ta¬

ciuta,  ma  si  capisce  subito  che,  per  sua  natura,  questa  crisi  non  può

essere  un  evento  singolo  localizzato  nel  tempo.  Con  apparente  non¬

curanza  F.  parla  della  subita  trasformazione,  e  ci  vuole  un  certo

tempo  per  accorgersi  che  questa,  piuttosto  che  un  ricordo,  è  un

desiderio,  ima  decisione,  un  programma,  imo  stato  d’animo  attuale

che  si  proietta  sul  passato  e  glielo  sdoppia.

 

Nonostante  certe  apparenti  intimità  F.  non  si  confessa  con  nes¬

suno  (lo  prova  il  fatto  che  dei  suoi  molti  amici  probabilmente  tutti

ricevono  da  lei  confessioni,  che  fatte  a  imo  solo  sarebbero  dedizio¬

ne  fiduciosa  –  fatte  a  molti  sono  soltanto  conversazione  «  interes¬

sante  »).  Bisognerà  quindi  auscultare  i  suoi  «  discorsi  a  vanvera  »,

caso  mai  qualcuna  delle  parole  desse  un’eco  di  cavità  ignota.  Chi,

messo  in  sollucchero  dalla  facilità  con  cui  F.  abborda  argomenti

erotici,  si  fermasse  su  questo  campo,  sbaglierebbe:  sbaglierebbe

per  la  ragione  che  evidentemente  qui  F.  si  sorveglia,  si  inibisce  con

piena  coscienza  e  ben  poco  lascia  intendere  della  sua  vera  natura.

La  chiave  –  se  chiave  esiste  –  andrà  cercata  altrove.

Per  esempio,  nella  paura.  Una  delle  cose  più  vere  che  abbia  det¬

to  F.,  fu  ima  volta,  d’estate  in  campagna,  davanti  a  certi  alberi  im¬

mobili  nella  sera:  «  Quando  le  piante  sono  perfettamente  immobi¬

li  fanno  paura  ».  Dice  poi  che  ha  tuttora  paura  del  buio;  e  un  gior¬

no  alluse  rabbrividendo  alle  angosce  che  provava  da  bimba  discor¬

rendo  dietro  una  tenda,  in  solitudine,  con  un  interruttore  della  lu¬

  1. Chi poi  l’ha  vista  soffrire  vere  smanie  di  terrore  all’idea  che  in

casa  stesse  accadendo  qualcosa  di  odioso  e  sussultare  come  un  to¬

po  sbarrando  gli  occhi  e  smarrirsi,  ma  insieme  ricorda  la  sua  alle¬

gra  protesta  che  non  le  riesce  di  aver  paura  di  un  allarme  aereo,  co¬

mincia  a  scoprire  in  questi  caratteri  una  costante.  Questa,  cioè:

più  che  spaventi,  le  paure  di  F.  sono  angosce.  Con  ciò  si  viene  a  di¬

re  che  la  vita  interiore  di  F.  (e  ciò  fin  dall’infanzia)  è  tutta  intrisa

di  stati  d’attesa,  di  penosa  attesa,  di  un  «  ignoto  »  che  è  insieme  de¬

siderato  e  respinto.  Tutti  e  quattro  gli  esempi  dati  s’incontrano  in

questo  che  suppongono  un’avidità  affettiva,  una  tensione  smanio¬

sa  verso  un  oggetto  un’intimità  un  ambiente,  che  appaiono  al  sog¬

getto  tanto  intense  e  assolute  da  capovolgersi,  per  la  solita  ambi¬

valenza  di  questi  istinti,  in  un  vivo  e  diffuso  terrore  del  loro  scopo.

Si  parla  qui  naturalmente  di  un  carattere  psichico  acquisito  nella

primissima  infanzia,  quando  ciò  che  più  tardi  si  differenzierà  come

istinto  sessuale,  vive  ancora  e  lievita  confuso  nei  primi  conati  af¬

fettivi  e  fantastici.  Importa  insomma  osservare  come  in  F.  non  af¬

fiorino  grandi  spaventi  –  forse  gli  spaventi  provati  lei  li  trasforma

in  altro,  vale  a  dire  li  dimentica  –  ma  la  vita  sensitiva  si  sia  invece

allargata  in  un  limbo  &  angosce,  di  capacità  cioè  d’inventare  e

aspettarsi  misteriose  sventure  solitarie,  le  cui  sofferenze  sfuggono

a  una  chiara  definizione  e  consistono  appunto  di  un’atmosfera,  di

una  tonalità  dell’anima.  È  ancora  necessario  ricordare  che,  benché

intellettualmente  non  inerte,  F.  ha  di  proposito  limitato  la  sua  vi¬

ta  contemplativa  al  godimento  della  musica  –  gusto  che  suppone

appunto  la  capacità  dell’angoscia,  e  secondo  alcuni  ne  è  il  corretti¬

vo,  secondo  altri  la  sublimazione?

 

Ora,  in  accordo  col  quadro  delle  sue  angosce,  F.  confessa  di

aver  provato  fino  ai  dodici  anni  una  scontrosa  repulsione  per  ogni

«  estraneo  ».  Come  mai  dalla  bimba  scontrosa  e  sensitiva  (ciò  che

rende  duri  e  violenti  è  la  sete  di  tenerezza),  solitaria  e  fantastica,

impacciata  e  domestica,  ha  potuto  nascere  la  donna  «  repandue  »  e

disinvolta,  positiva  e  attiva,  cristallina  e  cordiale,  con  cui  credono

di  scherzare  scultori,  musicisti  e  poeti?  E  soprattutto  come  mai  la

bimba  che  s’incantava  come  il  pollo  davanti  alla  riga  di  gesso,  e  che

 

 

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[marzo  1941]  585

 

oggi  ancora  è  rimasta  la  vergine  che  rabbrividisce  all’idea  dello

stupro  –  come  mai  proprio  costei  vive  un  ideale  di  socievolezza  vi¬

rile  e  non  ha  amici  che  tra  gli  uomini  e  li  ricerca  con  baldanza  e  li

domina  senza  sforzo,  tanto  che  chi  non  la  conosce  con  amore  so¬

spetta  in  lei  la  «  viveuse  »  e  la  tratta  in  sostanza  come  tale?  La  chia¬

ve  del  segreto  sta  in  una  sua  ingenua  confessione  che  si  ha  torto  a

considerare  semplice  petulanza  di  signorinetta  (Bobbio)  o  incauta

scusa  di  «  devergondée  »  (le  rivali  mondane  e,  pare,  i  musicisti).  E

la  confessione  è  la  banale  frase,  mille  volte  da  F.  ripetuta,  che  lei  è

ima  donna  mascolinizzata.  Essa  viene  a  dire  che  F.  tende  a  identi¬

ficarsi  con  gli  uomini,  anzi  con  un  determinato  tipo  d’uomo  che

evidentemente  rappresenta  il  suo  ideale.  F.  in  questa  sua  vita  dif¬

fusa  e  attiva  è  abbastanza  ingenua  da  lasciar  intendere  che  la  con¬

duce  per  disperazione,  per  assurdo,  o  per  scelta  calcolata  –  che  tor¬

na  lo  stesso.  È  questo  in  sostanza  il  secondo  periodo  della  sua  vita,

quel  periodo  che  si  contrappone,  nel  desiderio  di  F.,  a  un  non  ben

confessato  né  precisato  primo  periodo  in  cui  pare  facesse  tutto

l’opposto.

 

Ecco  spiegato  perché  l’idea  di  una  data  crisi  e  conversione  alla

nuova  vita  è  inaccettabile.  Quando  si  dice  identificazione ,  si  dice

complesso  psichico  represso  che  cerca  il  suo  sfogo  in  un  nuovo  mi¬

to  della  condotta.  E  si  dice  quindi  sdoppiamento,  non  successivo

ma  contemporaneo.  F.  è  tuttora  la  bambina  delle  angosce,  proprio

mentre  vive  il  suo  mito  della  dinamica  praticità.

 

Ecco  come  è  andata.  Come  tutte  le  adolescenze  di  questo  mon¬

do,  quella  di  F.  si  è  compiuta  nella  penosa  e  umiliante  consapevo¬

lezza  del  sesso.  Poche  cose  sono  altrettanto  tristi  che  la  sudicia,

smaniosa  e  inesorabile  scoperta  del  destino  sessuale  della  carne,  in

quegli  anni  che  nulla  ancora  dei  suoi  possibili  compensi  si  conosce.

Inoltre,  F.  non  ebbe  in  quegli  anni  l’inevitabile  crisi  mistica  che  di¬

strae  dal  sesso  (in  realtà  ne  è  una  semplice  tappa)  e  scarica  la  piena

delle  indignazioni  e  delle  rivolte  in  una  dolce  atmosfera  del  cuore

e  della  coscienza.  Non  è  strano  che  con  tanta  capacità  di  sentire

V angoscia  –  lo  stato  tipicamente  prereligioso  –  F.  non  abbia  senti¬

to  almeno  per  un  anno,  per  sei  mesi,  il  trasporto  religioso?  Non  è

affatto  strano  e,  se  vorremo  ricordare  la  sua  esperienza  dei  dieci  an¬

ni  –  il  confessore  che  la  rivoltò  insegnandole  le  sudicerie  –  capire¬

mo  come  proprio  la  sua  angoscia  sia  nata  e  restata  nella  sfera  ses¬

suale,  naturalmente  come  ambivalenza  –  orrore  e  insieme  smania

del  contatto  umano,  scontroso  riserbo  fisico  e  insieme  sofferenza

della  solitudine.  Oggi  ancora,  che  pure  conosce  meglio  sé  stessa  e

gli  altri,  F.  continua  a  rabbrividire  all’idea  dello  stupro  –  naturai-

 

 

mente  in  forme  romanzesche  e  caricate.  Questa  è  insieme  la  più

 

antica  e  la  più  nuova  delle  sue  angosce.  Parlandone,  diventa  persi¬

no  sincera  e  dimentica  il  mito  della  mascolinizzazione.  O  meglio,

scopre  di  questo  mito  il  volto  vero:  identificazione  nata  da  istinto

represso.  Che  cosa  teme  F.  nello  stupro?  Scherzando,  lo  immagina

con  tutto  un  corteggio  di  orrori  –  rivoluzione  e  guerra  civile  -,  ma

io  sospetto  che  essa  lo  tema  allo  stato  puro  nella  sua  semplice  ne¬

cessità  fisiologica.  Essa  è  insomma  nella  condizione  di  quei  giova¬

notti  che  non  sanno  risolversi  a  «  livrer  leur  force  à  une  femme  »,

nella  condizione  cioè  di  un  suo  amico  di  cui  parla  sovente,  V.  La

strage,  il  sangue,  le  mitragliatrici,  che  nelle  sue  sarcastiche  fantasie

dovrebbero  accompagnare  la  cerimonia,  sono  anche  qui  un  mito  di

una  più  semplice  e  umana  ripugnanza:  F.,  cosi  come  V.,  non  può

rassegnarsi  all’idea  di  subire  su  di  sé  la  rivelazione  della  realtà  di

un  altro  sesso.  Ciò  è  per  lei  pura  angoscia.

 

Bisogna  insistere.  F.  non  ha  paura ,  non  teme  il  dolore  (ricorda¬

re  la  faccenda  degli  allarmi),  se  anzi  pensa  a  sposarsi  pensa  subito

ai  figli  (altra  prova  che  non  è  ancora  riuscita  a  vedere  nel  sesso  una

possibile  realtà  voluttuosa):  quello  che  teme  è  l’insulto  fatto  al

suo  narcisistico  riserbo,  è  il  violento  infrangersi  della  sfera  di  ango¬

scia  solitaria  che  possiamo  rintracciare  fin  nella  sua  avventura  in¬

fantile  con  Pinterruttore  o  nella  sua  comprensione  per  il  metafisico

orrore  delle  piante  immobili.  Un  altro  esempio:  lo  stesso  orrore  F.

Pha  provato  per  un  certo  bacio  violento,  che  forse  fu  per  lei  il  solo.

 

A  questo  punto  si  comprende  meglio,  nella  sua  malinconica

realtà,  il  movente  di  quell’identificazione  con  l’altro  sesso.

 

 

Un  giovanotto  che  entri  nella  vita  cercando  sistematicamente

compagnia  femminile,  non  per  farci  all’amore  ma  per  farsene  un

modello  e  risentendone  l’influsso  nei  gusti,  nelle  pose,  negli  umo¬

ri,  è  un  omosessuale  che  si  ignora.  Potrà  più  tardi  magari  sposarsi

e  diventare  marito  e  padre  felice,  ma  ciò  non  toglie  che  in  partenza

egli  tendesse  a  tutt’altro.  Si  sarà  salvato  forse  senza  saperlo  –  per

un  caso,  per  un  incontro  fortunato;  ma  sulla  lama  di  rasoio  c’è  pas¬

sato,  e  il  suo  destino  era  un  altro.

 

Bisognerà  dire  lo  stesso  di  una  ragazza  che  mostri  un  gusto  riso¬

luto  della  compagnia  maschile  e  se  ne  faccia  un  ideale  di  vita  ases¬

suale.  Nei  due  casi  è  cominciato  un  processo  d’identificazione  col

sesso  opposto,  ed  è  ovvio  come  –  scoppiando  l’occasione  che  in¬

franga  le  ultime  inibizioni  della  coscienza  e  dell’abitudine  –  acca¬

drà  die  il  giovane  femminizzato  e  la  ragazza  mascolinizzata  trove-

 

ranno  concepibile  liberare  attraverso  un  commercio  omosessuale

Tistinto  invertito  –  dato  che  il  sesso  a  loro  complementare  sarà  or¬

mai  il  proprio.  Va  da  sé  che  gli  individui  che  giungono  alla  dichia¬

rata  omosessualità  sono  altrettanto  rari  rispetto  ai  tendenziali  co¬

me  sono  rari  i  casi  di  assassinio  consumato  rispetto  agli  assassini

potenziali  (chi  di  noi  non  ha  sognato  almeno  una  volta  di  ammazza¬

re  qualcuno?)  Quest’indagine  –  sia  chiaro  –  non  mira  a  scoprire

in  F.  un  destino  inesorabile,  ma  soltanto  a  rintracciare  in  lei  una

tendenza,  a  chiarirle  il  possibile  significato,  che  forse  le  sfugge,  di

un  suo  atteggiamento  di  per  sé  innocente.

 

Tuttavia,  l’inversione  omosessuale  è  cosa  tanto  violenta  che

non  basta  a  provocarla  uno  stato  d’angoscia  diffusa,  ma  –  insegna

la  psicanalisi  –  le  occorre  un  trauma  psichico  ben  definito.  Esiste

questo  trauma  nel  passato  infantile  di  F.  ?  Tutto  il  problema  è  qui,

e  naturalmente  potrà  rispondervi  soltanto  F.  scavando  in  sé  stessa.

 

Se  vorrà  farlo,  F.  dovrà  ficcare  gli  occhi  chiari  —  questo  corag¬

gio  non  le  manca  –  nella  nebulosa  infantile  dei  suoi  rapporti  coi

genitori.  La  sua  attuale  sistemazione  familiare  è,  sotto  questo  ri¬

spetto,  ambigua.  Predilige  la  madre  e  osteggia  il  padre.  Se  si  sco¬

prisse  che  al  tempo  delle  prime  angosce  F.  cominciò  con  un  attac¬

camento  morboso  per  il  padre  […] 1  2 3  si  avrebbe  chiara  la  ragione

della  sua  attuale  frigidità  —  ostentata?  –  verso  tutti  gli  uomini.  Ma

bisognerebbe  in  questo  caso  ammettere  che  l’ideale  maschile  di  F.

è  tuttora  inconsciamente  rappresentato  dal  padre  dei  suoi  primi  an¬

ni  —  ammissione  azzardata,  […]  \

l’Antologia di Spoon River. Sono i primi anni ’40, la futura “Nanda” ha 26 anni, e il libro superproibito, come lo definirà lei, glielo ha passato proprio Cesare Pavese, che si occupa dell’opera di Edgar Lee Masters dal 1930.

Proprio la passione per lo studio e la letteratura, ben più dell’amore non corrisposto di Pavese per Fernanda (già innamoratissima del futuro marito Ettore Sottsass, per il quale disse no per ben due volte, nel ’40 e nel ’45, a Pavese che la chiedeva in sposa), emerge dalla lettera e dalle corrispondenze che pubblichiamo qui. Dove si vede, è vero, il giovane Cesare «geloso come un gorilla», ma anche, ad esempio nel biglietto del ’41, l’esortazione senza appello a «studio e diligenza». Altri esempi sono nei Diari della stessa Pivano, quando l’autrice ricorda che «Pavese cercava di farmi diventare un’intellettuale», o quando elenca gli articoli dello scrittore sulla rivista «La cultura», da lei divorati, o infine in altri inediti di Pavese in cui lo scrittore esorta Fernanda allo «studio, studio, studio». Ma è soprattutto in questo inedito, datato 11 gennaio ’43, che l’incitamento dello scrittore si dispiega con le parole del mentore. È preoccupato, Pavese, per il richiamo alle armi appena ricevuto: ma tratta l’argomento con ironia, e si occupa invece di Fernanda. La quale certo incarnava il suo ideale di donna, «preziosa in un essere ignorato» (Il mestiere di vivere, Einaudi), ma che lo colpiva per l’intelligenza e la differenza dalle «ragazze qualsiasi» (Vita attraverso le lettere, Einaudi). In questo inedito, dunque, egli fornisce alcune istruzioni sulla traduzione dell’Antologia di Spoon River, la storica traduzione della Pivano che uscirà in quello stesso ’43, insieme rassicurando («farò tutto io qui») e invitando alla cautela. Ma ciò che «preoccupa di più» Pavese è l’atteggiamento dell’ex allieva, amica e promettente studiosa: una «malinconia» che certo, in altri modi, era condivisa da tutti i giovani intellettuali d’allora, oppressi dal regime, dalla guerra, dalla povertà e da un isolamento che non era soltanto personale.

                                      Tre biglietti autografi di Pavese (foto Marco Fiumara)

Pavese mostra tutto il coraggio di una generazione cresciuta tra difficoltà e censure, e sa vedere la novità di ciò che ha davanti, in questa donna autonoma e capace. Qui quasi egli prefigura il modo in cui la donna italiana, non solo Fernanda, dovrà uscire dai ruoli mediocri imposti dall’epoca e dal fascismo. «È sola e disagiata», scrive Pavese, «ma può studiare e lavorare», le spiega. E ancora: «Non se l’intende coi Suoi, ma studiando e lavorando si prepara il modo di farsi un’indipendenza». Un’indipendenza che sarà proprio quella della Pivano, vivacissima animatrice della cultura, scopritrice di talenti, ponte tra l’America della Beat Generation e l’Italia, e molto altro. Un futuro che prima di esistere nella realtà, esiste brevemente già qui, nelle poche righe di uno scrittore che lievemente, ma fermamente, dà l’esortazione e la fiducia che può venire solo da un maestro.

A Fernanda Pivano, Mondovì Breo.

[Roma,] domenica 30 [maggio 1943]

Cara Fern,

la Sua lettera mi ha molto commosso e se potessi prenderei subito il treno per provarLe che non è vero che la circondi il gelo e l’ostilità. Ma non capisco perché si trovi tanto male proprio adesso che sa di poter lavorare nove ore al giorno e quindi pressoché mantenersi. Non ha sempre aspirato all’indipendenza? A meno che Le succeda come a tutti: una volta ottenutala, non sa più che farne. Si ritorna cioè a quanto Le ho sempre consigliato: si faccia una vita interiore – di studio, di affetti, d’interessi umani che non siano soltanto di «arrivare», ma di «essere» – e vedrà che la vita avrà un significato. Io non ho potuto muovermi anche perché abbiamo avuto i questurini in casa per parecchio tempo – una nostra impiegata è stata arrestata – e s’immagini le grane.

«Si faccia una vita interiore». Lettera di Cesare Pavese a Fernanda Pivano

Cara Fern, la solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e «donando» invece di «ricevere». (È la solita sacrosanta predica). Non che io aneli di essere quello a cui Lei dovrebbe donare – tanto più che i doni che Lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri.

Fin che uno dice «sono solo», sono «estraneo e sconosciuto», «sento il gelo», starà sempre peggio. È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto.

La nostra posizione qui è molto precaria. Il padrone ogni tanto fa progetti per riportare la baracca in Piemonte – che non mi dispiacerebbe. Ma intanto – tira e molla – non faccio più niente e non ho più pace.

La smetta con quella stupida storia dell’assegno. Pensi piuttosto a tradurre l’Addio, e con l’assegno si comperi un monopattino.

Coraggio e arrivederci.

Lo scambio epistolare tra i due risulta davvero prezioso per ricostruire il disagio (soprattutto di lui) e la voglia di riscatto e indipendenza di genere (di lei) in un contesto storico ben delineato: quello della censura fascista e della guerra. La prima lettera è datata  22 agosto del 1940, l’ultima  luglio 1945.

Pavese appare «geloso come un gorilla»: a “Nanda” lo legano due forme d’amore, quello passionale e quello per la letteratura. Per questo non smette di esortarla a «studio e diligenza» e «studio, studio, studio».

«Cara Fernanda, che lei è cattiva ed egoista lho sempre saputo, ma neanche io non scherzo e quindi sono disposto a correre il rischio. Ma parliamo di cose più decenti, si è decisa o no a studiare?». «Pavese cercava di farmi diventare un’intellettuale» annota la Pivano nei Diari.

Li lega l’amore per la letteratura dicevamo: «La ringrazio dei programmi – le scrive il 19 ottobre 1940 – La telefonata di ieri mi ha aiutato a tornare alla poesia. Le offro i versi con lo stesso cuore con cui in agosto Le ho offerto i primi».

Lui si atteggia a mentore della giovane mentre, forse, avrebbe voluto solo abbandonarsi al sentimento. C’è uno scritto inedito, datato 11 gennaio 1943, in cui, anziché palesare la propria preoccupazione per il richiamo alle armi che aveva appena ricevuto, è in pena per lei che incarna il suo ideale di donna «preziosa in un essere ignorato» (Il mestiere di vivere, Einaudi) e che spiccava per quella vivace intelligenza che la rendeva tanto diversa dalle «ragazze qualsiasi» (Vita attraverso le lettere, Einaudi).

Nella lettera Pavese elargisce utili istruzioni sulla storica traduzione dell’«Antologia di Spoon River» a cui la Pivano stava lavorando e che sarebbe uscita in quello stesso anno: la rassicura («farò tutto io qui» riferendosi al trucco che escogitò per aggirare la censura fascista trasformando  l’Antologia di Spoon River in un’inattaccabile “Antologia di S. River”) e la invita  alla cautela.

«11 gennaio 1943 – Cara Fernanda, ricevo le due lettere, quella della malinconia, e quella su Spoon River e sul mio richiamo. Per S. R. farò tutto io qui, ma non silluda troppo presto perché vorranno vedere le bozze e potranno ritornare sulla decisione. Per il richiamo è una notizia del giornale, che dal 1° al 15 febbraio chiameranno tutti i laureati in congedo del 1923 e precedenti, per utilizzarli. Io, a buon conto, ho già cominciato a muovermi per sapere, primo, se sarò chiamato; secondo, se lo sarò davvero; terzo, per guarire dallasma. Stia certa che i miei desideri coincidono coi Suoi (…)».

Nanda lo preoccupa: sente che si è immalinconita, si è chiusa in se stessa.

«Mi preoccupa di più la Sua malinconia e il tono di bestia condotta al macello da Lei assunto. PerchéÈ sola e disagiata, ma può studiare e lavorare; non se lintende coi Suoi, ma studiando e lavorando si prepara il modo di farsi unindipendenza; non Le sono vicino a farle prediche, ma gliele faccio da lontano, e tanto più meditate e inesorabili, e assisto i Suoi lavori e insomma non sono in Polinesia (…)».

In realtà, l’isolamento della Pivano non è tanto una condizione personale, ma rappresenta la reazione egotica che molti intellettuali oppongono alla condizione di soffocamento a cui la guerra, il regime, la povertà li costringono.

Parla anche un po’ di sé Pavese: «Pensi che qui soffro il freddo come a Mondovì. Siamo in quattro in una casa, anzi cinque, tre uomini e due donne; viviamo studentescamente; si mangia non male; io giro tutto lacero e scalcagnato, e a Torino dovrò venire certo uno di questi giorni, non fosse che per rifornirmi di abiti. Da Torino passerei a Mondovì ()».

Poi prende coraggio e le lancia una proposta anche piuttosto audace: «Faccia sì che il primo incontro avvenga tra noi due soli, perché vorrò abbracciarla e baciarla. Ho deciso. Ho trovato molti complimenti per «Il Mare» – (l’unico racconto scritto da Pavese, incluso in Feria d’agosto) – che pare abbia colpito tutta Roma, ma io vivo isolatissimo, anche perché a girare di notte su questi maledetti autobus e circolari, dove non si capisce niente, non mi pigliano certo. Cara Fernanda, si sta meglio con Lei a Torino, e anche a Mondovì. Stia allegra.  Pavese».

Nelle lettere a Nanda ritroviamo un Pavese capace di atteggiamenti contrastanti: in alcune prevale l’uomo innamorato, in altre assume un tono vagamente paterno, in altre ancora indugia sulle proprie debolezze mostrando una propensione analitica verso la quella incapacità oggettiva di creare un legame affettivo autentico e duraturo.

«Cara Fernanda  le scrive il 13 febbraio 1943 – durante il viaggio ho pensato molto alle mie cose e mi sono accorto di non essere più un ragazzino, perché se fossi un ragazzino avrei goduto e sofferto molto e pensato bei pensieri e schizzato poesie. (). Anzi, mi sento padre. Di che cosa o di chi, non so bene, ma mi sento padre, responsabile e noioso e superato. Com’ero più mascalzone e intelligente a venticinque anni. Allora ho scritto un libro che nessuno stima un soldo, ma comunque non sarà più superato da nulla che io scriva.() La verità, Fernanda, è che divento egoista (). Allora vada tutto all’inferno: vuol dire che neanche volendo si può più scrivere una bella cosa, né “essere felici” in compagnia. Fernanda, sono molto infelice. Tuttavia L’accarezzo con riserbo, e la prego di ringraziare ancora la mamma per quella levataccia delle 5 1/2 e l’uovo e tutto. Pavese».

La storia, l’amicizia finisce nell’immediato dopoguerra, Pavese nel diario il 26 ottobre del 1946 scrive per l’ultima volta:

“Do dentro al romanzo. La Piv. si è sposata stamattina. Sono raffreddato. Bene.”

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