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di Grazia Nardi – 8 marzo 2015
Ricordi, percezioni, sensazioni molto personali dell’8 marzo prima del 1968.
L’organizzazione era ad opera pressoché esclusiva della Commissione Femminile del PCI e dell’UDI, Unione Donne Italiane ovvero un’organizzazione nazionale cui aderivano donne di diversa ispirazione, comuniste, socialiste, repubblicane. Per questo, durante le campagne elettorali, l’UDI, non poteva schierarsi ufficialmente ma come “fiancheggiatrice, poteva invocare “l’apertura a sinistra”. In puro politichese maschile.
Il PCI aveva nel suo programma, insieme a quella meridionale, a quella operaia, la “questione femminile”. Assurgeva al rango di “questione” la problematica che, pur settoriale nella denominazione, se risolta avrebbe dato risposta ai problemi generali. Una società che volesse garantire lavoro e parità salariale, servizi sociali adeguati, ecc. dovrebbe ridifinire le basi (oggi si direbbe i nodi strutturali) dello sviluppo, nell’interesse di tutti.
L’intuizione era forte ma coglieva un’esigenza politica, non ancora un valore di genere.
Si parlava di emancipazione e non di pari opportunità. Si partiva dai problemi del mondo per arrivare alle donne, oggi si parte dalle donne per arrivare al mondo.
Paradossalmente questo spiega il rigore con cui si affrontava l’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, una data che i più fanno risalire ad un fatto accaduto l’8 marzo 1908 a Chicago, quando, le operaie della Cotton in sciopero, morirono bruciate vive, chiuse a chiave dal padrone nella fabbrica, dove lavoravano per un salario da niente.
Dopo la campagna contro il “caro-vita” che segnava la ripresa dell’attività, finita la “stagione” e le iniziative sulla scuola allora vissuta come “problema” femminile, l’8 marzo rappresentava un momento di lavoro intenso per la componente femminile del Partito. Era lì che si misurava la capacità della “responsabile” di organizzare ed assemblare donne, salendo in considerazione in un apparato del tutto maschile, eccetto, appunto, la responsabile della commissione femminile.
Si rendeva ossequio alla compagna del Nazionale, invitata per la manifestazione centrale, il cui peso ovvero notorietà era proporzionale alle dimensioni e, quindi, al peso della federazione locale. Per questo ricordo ancora l’emozione fortissima di quando fui ammessa ad un pranzo cui interveniva, in via del tutto eccezionale (probabilmente di passaggio con direzione Reggio Emilia), Nilde Iotti. Donna colta, altera che, per fortuna, metteva soggezione anche agli uomini.
L’invito era un segnale, potrei dire una sorta di promozione che sanciva l’ingresso ufficiale nel mondo politico degli adulti.
Ma il “grosso” era nelle iniziative capillari, feste di sezione, riunioni di caseggiato, che richiedeva l’impiego di tutte le compagne in grado di “parlare”. Era proprio questa l’espressione. Qualche Consigliera comunale, rarissime Assessore, naturalmente delegate ai servizi sociali, massimo alla pubblica istruzione, più alto il numero delle insegnanti.
Di qui il timor panico quando fui precettata per la prima volta, ancora ragazzina presa dal fascino dei grandi temi, il Vietnam, l’antimperialismo. Era il periodo di “W Ho Chi Minh” e Johonson Boja”, della lotta contro il nozionismo scolastico mentre si affacciavano nell’orizzonte di genere femminile, le prime suggestioni sul diritto a vivere la propria sessualità. L’arrivo della pillola, ancorché illegale, obbligava le donne ad un nuovo rapporto con la maternità e la propria femminilità, ad un dibattito epocale che il Partito teneva del tutto fuori dal dibattito politico.
Sarei stata in grado di affrontare donne di ben altra età e, soprattutto, mentalità? Non era come adesso che si parla tutte, si parla sempre. Nel PCI c’era una gradualità ed il timore non era solo quello di fare “brutta figura” (che comunque c’era tutto) ma anche quello di nuocere al Partito, alla Causa.
La TV con due soli canali non faceva storia tantomeno la stampa. L’Unità, che entrava nelle case con la diffusione domenicale, era letta soprattutto dagli uomini, le donne si appassionavano ai corsivi di Fortebraccio. L’8 marzo, alla distribuzione delle mimose veniva abbinato il giornale dell’UDI, Noi Donne di non certo popolare lettura. Dunque, negli incontri di donne, era necessario inquadrare tutta la tematica del Partito ovvero la “linea”, colmare il vuoto di informazioni, non tralasciare qualche battuta se non spiritosa almeno brillante per poi volgere sulla parte tematica dedicata alle donne. Se queste annuivano col capo in segno di condiviso compiacimento, allora l’esame era superato.
La prima esperienza mi tranquillizzò. Un incontro nel ghetto di Case Nuove di Viserba Monte. Donne semplici, per lo più casalinghe che mi guardavano con indulgente occhio materno, già contente di vedere una “giovane” sulla buona strada, vestita in maniera sobria niente trucco, niente sigarette. Incoraggiate dalla mia semplicità parlarono sempre loro. Eppoi alla fine, ciambella, vino dolce e mimose riportava il tutto ad una dimensione di festa che quelle donne mogli e madri a tempo pieno, meritavano più di altro.
Oramai “iniziata” fui destinata, nella seconda tappa, alla Sezione della Cavaretta, allora sezione dei big del Partito, compreso il Segretario di Federazione. Lì la tradizione voleva una Festa da ballo con orchestrina dal vivo, preparata con tanto di volantino con programma ed il mio nome riportato.
Questa volta era più difficile dovendo ostentare una sicurezza che non c’era ma il trauma fu superato perché al discorso era riservato lo stacchetto a metà serata per cui l’esordio “non vi voglio tediare con lunghi discorsi in una serata di festa” ottenne unanime consenso e me la cavai col classico saluto che si fingeva a “braccio” mentre era stato scolpito precedentemente nella mente.
Il vero trauma paragonabile ad una spinta nelle acque del porto se non sai nuotare, ci fu alla prima inconsapevole trasferta. Nella terza uscita la di allora Responsabile femminile mi fece prelevare da un compagno, dato che non avevo l’auto e neppure la patente, che mi portò in un Comune della Valmarecchia.
Beh, mi dicevo, è andato tutto bene nella città capoluogo mica mi potrà impensierire un comune dell’entroterra! Ma entrata nel buio di un locale mi ritrovai sola sul palco dell’unico cinema del luogo. In piedi, davanti ad un microfono dove non era possibile reggere foglietti senza tradire l’emozione con il tremolio delle mani, davanti ad un pubblico vociante. Oltre duecento tra donne, uomini ed anche bambini, ansiosi di assistere alla proiezione del film “La moglie più bella” con il debutto di Ornella Muti e la regia di Damiano Damiani, in prima visione per la città di Santarcangelo. Il lungometraggio era dedicato al caso di Franca Viola, la prima donna che rifiutò le nozze riparatrici dopo aver subito violenza. Un tema importante, un cast attraente. Qui non potevo competere!
Non ricordo cosa possa aver detto, la penombra della sala mi ha sicuramente aiutata perché in questa circostanza era meglio non vedere l’espressione sul volto dei presenti. Alla fine l’applauso scattò comunque. In questi casi i compagni, alla fine, ti dicevano sempre “brava, hai parlato bene!” Promossa per la prossima tappa!
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Grazia Nardi
nel periodo in cui, militando nel PCI, la mimosa, con altre compagne, la dostribuivo casa per casa o nelle feste organizzate ad hoc, negli incontri, davati le fabbriche…. non si comprava nei negozi… non era un fiore di per sè commerciabile…dal fioraio se ne comprava a chili ad opera di PCI ed UDI..ma per il lavoro capillare.. in quel periodo la mimosa era il filo conduttore di una lotta che partiva dalla resistenza per agganciarsi ai temi dell’emancipazione…chi, l’8 marzo, la teneva in mano o in caso si identificava con un’idea…poi le cose sono cambiate ma mica per iniziativa dei fiorai…