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di Maurizio Blondet – 19 gennaio 2016
I media hanno finalmente scoperto che 62 ricchi hanno la ricchezza della metà dell’altra popolazione del mondo. Grazie ad Oxfam, la ong inglese, possono pubblicare dati come se fossero una sorpresa. 7 milioni di italiani, l’11,5% della popolazione, vivono in “grave deprivazione materiale”, e nel 2004 erano solo, si fa per dire, il 6,4 per cento: è stato quasi un raddoppio. Il numero di quelli che, pur avendo un lavoro, sono poveri, è parimenti cresciuto: dall’8,9 all’11per cento. Nel complesso 22 italiani su cento sono miseri, e il loro numero è aumentato. Nello stesso periodo, è triplicato il numero dei miliardari in Italia: erano 13 nel 2004, sono 39 oggi a possedere almeno mille milioni di euro. Ciò mentre il paese ha perso il 25 % delle attività economiche a cominciare dall’entrata nell’euro e poi nella grande depressione dal 2008.
La politica dei governi ha solo aggravato le disuguaglianze. Se questi sono stati l’effetto generale del capitalismo globalizzato in tutto il mondo, la particolarità italiana sta nel fatto che è il paese peggio governato dalla UE. E non date la colpa (solo) ai governi; è la Casta multiforme e parassitaria, esemplificata da direttori generali di ministeri con stipendi pari a quello del presidente Usa, o apparati regionali criminosi, che si sono pagate profumatamente per la mancata distribuzione, l’incompetenza, il saccheggio dei produttori.
Fra le cose che non si sottolineano abbastanza, c’è la rivelazione che questa disparità estrema della ricchezza costa 7 punti di Pil: la celebrata “efficienza” del capitalismo senza freni è una reale e concreta palla al piede dell’economia.
Il punto che noi siamo arrivati con questa condizione sociale nel secondo avvitamento della recessione innescata nel 2008 coi subprime americani. Il crollo delle banche italiane, che fa stupidamente godere quelli che “il papà della Boschi si è fatto consigliare da Carboni” ( la Massoneria governa le banche toscane dai tempi in cui i Savoia cacciarono il Granduca; mazziniani come Augusto Duchoqué furono al centro del cosiddetto “trasformismo creditizio” a capo della Banca Nazionale Toscana, e al patriota Giacomo Alvisi, con le sue Banche del Popolo social-mazziniane, dobbiamo la prima bolla in cui lasciarono le penne i lavoratori toscani rossi, che ci avevano creduto: niente di nuovo sotto il sole), dicevo la fuga degli “investitori” dalle banche toscane e dai loro titoli a interessi quasi zero, che ha messo a nudo i 200 miliardi di crediti marci del sistema bancario italiano, sono solo la risacca locale del crollo globale in corso.
Nelle prime due settimane del 2016 sono collassate le azioni di Wall Street, collassati i mercati cinesi; si inabissano gli emergenti, precipitano le borse dei petrolieri arabi, cade la Russia in un attimo. Cadono anche i mercati dove le banche centrali pompano liquidità a perdifiato, o dove impongono interessi negativi per i depositi; misure del tutto inefficaci nella colossale tempesta perfetta innescata.
In Usa, la menzogna della ripresa non regge più, e i titoli crollano. “La menzogna consensuale è svanita, qualcosa di grosso è cambiato”; avverte l’analista Wolf Richter. “E’ arrivato il mostro della deflazione, è davvero arrabbiato”, annuncia Chris Martenson, un altro.
Svanita la menzogna “consensuale”, gli operatori Usa scoprono per esempio che le azioni Intel (i microchip) son cadute di oltre il 9% in un colpo; ma come, anche la grande sofisticata industria avanzatissima? La realtà è che il business del digitale è nel pantano, -16% le vendite di PC. Basta dire che a Taiwan – la centrale dell’industria, dove si fabbricano e progettano semiconduttori del mondo intero – ha oggi una disoccupazione al 12 per cento, pari a quella italiana.
Cosa è successo? Quello che il capitalismo fa succedere in modo ricorrente, se lasciato agire liberamente: il 1929. La grande depressione, a deflazione maligna. Il motivo è spiegato da una tabella. Riguarda gli Stati Uniti? No, il mondo intero:
La finanza, mentre toglieva potere d’acquisto ai salari, ha finanziato la “crescita” indebitando i salariati, gli imprenditori, gli stati, il mondo. Risultato: il debito è salito del doppio rispetto alla crescita del Pil. E’ facile capire che se tu prendi prestiti per il doppio dei tuoi guadagni, finisci presto a far la fila alle mense Caritas.
E’ la grande ricaduta, come nel ‘37
I segnali c’erano, e da anni: il calo tremendo dei traffici marittimi segnalati da Baltic Dry Index. Da molto temo la Cina ha preso a “esportare deflazione” nel mondo, svendendo la sua sovrapproduzione, poniamo, di alluminio e acciaio che le sue industrie non assorbono più, e cessando di comprare rame come prima, facendone calare il prezzo. Ma non basta: un giorno gli storici del futuro (se ci sarà un futuro) si domanderanno per quale malvagia idiozia le grandi potenze, tutte insieme – in un clima mondiale di per sé deflattivo da fine del ciclo del debito – si sono messe ad applicare attive politiche per aggravare la deflazione. La monarchia saudita guidando con la sovrapproduzione follemente volontaria, il calo storico del prezzo del greggio, da 100 a 28 dollari, per distruggere lo shale americano, mettere in difficoltà i russi e contrastare il concorrente-nemico Iran. Washington che sceglie proprio questo momento per far tornare l’Iran all’onore del mondo, in cui gli ayatollah non vedono l’ora di rovesciare milioni di barili del loro greggio, deprimendone i prezzi a livelli che un giorno saranno considerati suicidi. Non bastasse, gli Usa hanno provocato il caos in una parte notevole del mondo, che ha cessato di essere un “mercato” di consumo o luogo di attrazione del turismo; hanno imposto (all’Europa) sanzioni alla Russia che provocano recessione a questa e a quella, con riduzione di consumi. La Unione Europea a guida germanica ha dato il suo decisivo contributo alla deflazione imponendo austerità, il pareggio di bilancio degli stati, il rientro dai debiti, taglio dei salari come unica via per riacquistare competitività mondiale. La cancelliera Merkel passerà alla storia (se ci sarà una storia) come quella che ricalcò le orme del cancelliere Heinrich Bruening, che nel 1930 “curò” la crisi economica (nata dall’America, 1929) e la disoccupazione galoppante con fori riduzioni delle spese dello stato, aumento dei dazi doganali, tagli ai sussidi di disoccupazione (“così quei fannulloni si metteranno a lavorare”) e, nel ’31, “decretò una riduzione generale dei salari, che furono tagliati del 15%” per rendere più competitivi i lavoratori. A quel punto, non-lavoratori: sette milioni di salariati, un terzo della forza produttiva di allora, aveva perso il lavoro, perché le loro industrie, aggravate da costi incomprimibili (leggi: gli interessi sui debiti contratti con la finanza, tasse, ammortamenti ed affitti) cessarono di pagare i debiti, e anche le banche fallirono con loro.
Poi, venne Hitler e il risanamento dell’economia con i metodi creativi del banchiere Schacht, ariano d’onore. Per gli americani, la politica di Roosevelt fallì nel 1937, quando –come oggi – un piccolo tentativo della Fed di alzare i tassi (l’occupazione era un poco migliorata) provocò un nuovo collasso più tragico del ’29 dei mercati azionari (il Dow Jones crollò del 46%!), una nuova recessione, fallimenti a catena di imprese, e i disoccupati aumentarono dal 14 a quasi 20%.
La crisi che si apre è molto più grave (allora la Cina non esisteva come mercato né produttore ed esportatore di disordine finanziario), e di lunga durata, perché stavolta nessun dittatore “populista” potrà prendere il potere ad imbavagliare la finanza speculativa e il Bruening del nostro tempo; sicché anche noi avremo altri milioni di disoccupati. Che si andranno ad aggiungere a quelli rimasti sul lastrico dalla crisi del 2008 debitamente aggravata dalle ricette di austerità diligentemente applicate da Monti e Bersani per conto di Bruxelles e di Draghi, e mai riassorbiti – in un paese che ha il tasso di inattività più alto d’Europa. Quanti saranno, anzi saremo? Da 3,5 milioni a 6? Dal 12,4 al 22 per cento della Spagna, al 25% della Grecia? Difficile dirlo.
Teniamo, nel delineare il nostro scenario, che vivono qui 5 milioni di stranieri – che si sentono stranieri, se non estranei e nemici – che finiranno in disoccupazione, ed occuperanno le strade ed i centri di aiuto e provvidenze. Teniamo conto che la depressione globale aggraverà anche le zone del mondo da cui già provengono a milioni i clandestini e i profughi: quanti milioni in più scenderanno nelle nostre coste, si presenteranno ai confini, premeranno per entrare? Saranno disarmati o no? Chi darà l’ordine alla nostre forze armate di sparare? (e quali forze armate?)
Intravvedo uno scenario in cui bisognerà andare a far la spesa al supermercato in convoglio e scorta armata, perché altrimenti centinaia di affamati per le strade ci rapineranno il cibo dal carrello. Le vecchiette che si avventurano da sole dal panettiere si vedranno portar via il borsellino da grossi senegalesi o cosiddetti siriani, o anche da italiani troppo a lungo senza lavoro né speranza di averne mai uno; ai semafori le portiere delle auto verranno aperte da mendicanti minacciosi di tutti i colori.
Esagero?
E’ lo scenario che ha in mente il capo dell’esercito elvetico, generale Andé Blattmann, quando qualche giorno fa ha confidato: “…Le prospettive economiche sono cupe, si assiste a sbarchi imprevisti di flussi migratori di massa. Impossibile non stupirsene. Così, da una parte, alla crisi si aggiunge maggiore concorrenza sul mercato del lavoro, dall’altra dobbiamo sobbarcarci i costi degli aiuti. Inoltre, non si possono escludere disordini sociali; il vocabolario si fa pericolosamente aggressivo». Per concludere: «Dobbiamo prepararci a conflitti, crisi e catastrofi». Per questo, la Svizzera ha pensato bene di riattrezzare il proprio esercito, «pronto a combattere per il Paese e per la nostra gente”. Gli svizzeri si difenderanno. E noi?