25 aprile, un’altra occasione per ripensare a un passato neppure troppo lontano

per stefano01

di Stefano Casarino   18 aprile 2016

Settantuno anni dalla fine della seconda guerra mondiale: quante generazioni sono passate?

Una volta, in tempi ormai lontani, il periodo che intercorreva tra la nascita di un genitore e la nascita di un figlio era di vent’anni; poi si è spostato a venticinque, ora siamo a trent’anni e più. E quindi sono passate tra le due e le tre generazioni.

Il che vuol dire che in famiglia sono sempre meno i nonni che possono ricordare quel tempo, farne memoria ai nipoti.

Sempre più grave si fa allora il problema della conservazione del ricordo, prima ancora che quello della celebrazione.

Ha ragione Primo Levi quando in “Shemà”, la lirica che apre Se questo è un uomo, ci intima perentoriamente di ricordare (Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa e andando per via,/ coricandovi alzandovi;/ ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi), sentendosi lui stesso drammaticamente condannato a fare da testimone, a ripetere sempre ad ora incerta … l’orrenda storia (sono versi de La ballata del vecchio marinaio, 1798 di Samuel Taylor Coleridge).

Noi la ripetiamo, la rimeditiamo ancora quest’”orrenda storia”?

Tentiamo almeno di spiegare ai giovani di oggi – troppo spesso sedotti da “nuove” parole che inneggiano all’odio e alla violenza oppure apatici ed indifferenti a tutto ciò che è “politica”, attività caduta oggi quanto mai in discredito – perché è stata così “orrenda”?

Se la celebrazione del 25 aprile servisse a questo, non sarebbe più soltanto una festa come le altre, ma avrebbe un significato diverso, educativo e morale.

Come, secondo me, dovrebbe proprio essere.

In sintesi, potremmo dire che quella storia è stata particolarmente orrenda per noi Italiani perché, studiandola, non si può non provare vergogna.

Vergogna per vent’anni (il famigerato “ventennio fascista”, dalla data della marcia su Roma, 28 ottobre 1922, alla fine soltanto formale del fascismo il 23 luglio 1943: ma ci fu anche la dolorosa e ancor più vergognosa appendice della Repubblica Sociale Italiana o Repubblica di Salò che durò sino al 29 aprile 1945) di assoluta infamia, che nessun revisionismo più o meno in buona fede può attenuare.

Solo per fare una veloce, ma forse non inutile, ricapitolazione: in quel tempo si eliminò ogni forma di opposizione e in modo progressivamente sistematico ogni diritto politico; fu il periodo delle “leggi liberticide”, che comportarono lo scioglimento di tutti i partiti politici e di tutte le associazioni sindacali, tranne quelle fasciste, e la soppressione della libertà di stampa, di riunione e di parola; ci fu la creazione di un Tribunale speciale che senza troppe storie, con un semplice provvedimento amministrativo, mandava al confino le persone sgradite al regime; il Presidente del Consiglio divenne irresponsabile di fronte al Parlamento e responsabile solo di fronte al re;  e, al culmine di questo delirio totalitario e seguendo docilmente il fulgido esempio della Germania nazista, nel 1937 si arrivò all’emanazione delle leggi razziali, che discriminavano gli ebrei sulla base dei convincimenti che scaturirono nel “Manifesto della razza” del 1938, dove si possono leggere affermazioni quali: “è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti”; “gli ebrei non appartengono alla razza italiana”; “I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo”.

E, vergogna delle vergogne, quel tempo sfociò in uno scontro spaventoso all’interno della stessa popolazione italiana, con alcuni che combatterono contro i fascisti e i nazisti ed altri che collaborarono con l’esercito tedesco.

Limitandoci alla perdita delle sole forze combattenti, in base a studi aggiornati al 2010, i morti e i dispersi furono più di 319.000: di questi, più di 15.000 furono i partigiani e più di 13.000 i repubblichini. Quest’ultimo termine  venne coniato da Umberto Calosso, socialista, nel 1943 in una trasmissione da Radio Londra: va anche ricordato che egli fu docente di letteratura italiana alla Facoltà di Magistero di Roma e che le sue lezioni furono spesso disturbate da gruppi di neofascisti che nel gennaio del 1952 lo aggredirono fisicamente due volte: anche questo aspetto non dovrebbe mai essere sottaciuto, i rigurgiti di fascismo sono una costante della storia italiana, dal secondo dopoguerra sino ad oggi, oggi – purtroppo! – incluso.

Vergogna, certamente, come prima, immediata reazione.

Ma poi, dopo, anche orgoglio!

Perché da quell’orrenda infamia il meglio del popolo italiano ha saputo risollevarsi da solo e l’ha contrastata.

Perché qualcuno ha preso la via dei monti, è diventato “partigiano”, cioè si è volontariamente – giova ripeterlo, volontariamente! – impegnato in atti di guerriglia, di sabotaggio, di propaganda antifascista.

Rischiando di persona. Mettendo a repentaglio la propria vita e quella dei propri cari. Combattendo e morendo (spesso in giovanissima età) per qualcosa che oggi si stenta persino a capire, perché non ha prezzo, perché non rientra nella visione economistica che caratterizza questo nostro grigio presente di spending review, quantitative easing, jobs act e via anglicizzando.

Tempo grigio e fitto di gravi problemi certamente, il nostro, ma tempo di pace e di libertà.

Valori che noi e i nostri figli diamo per scontati, ce li hanno garantiti sin dalla nascita, non sappiamo neppure immaginare come si potrebbe fare senza.

Per questo non ne siamo consapevoli.

Il 25 aprile può aiutarci a diventarlo: l’Italia non è sempre stata così.

Prima, più di settant’anni, fa le cose andavano ben diversamente: c’è voluto tanto coraggio, tanto dolore, tante morti per conquistare queste due non trascurabili “cose”: pace e libertà.

Ma basta poco, molto poco per riperderle.

E iniziamo già a perderle se non le custodiamo gelosamente, se non manteniamo  la cura, commossa e riconoscente, della memoria del sacrificio consapevole di chi quelle due “cose” ce le ha lasciate in dono.

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