25 aprile 1945

per Gabriella
Autore originale del testo: Carlo Greppi
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25 aprile 1945

25 APRILE 1945 – di CARLO GREPPI- ed. LATERZA

25 aprile 1945
25 aprile 1945
Arrendersi o perire

«Siamo a Milano, alla fine della giornata che segna l’alba di una nuova Italia.»  Carlo Greppi ricostruisce cosa avvenne il 25 aprile 1945 a partire da tre protagonisti di quelle fatidiche ore: Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri, Luigi Longo. Con questo libro inauguriamo una nuova serie di Storia dedicata ai ’10 giorni che hanno fatto l’Italia’.

“C’è poco da trattare: resa e consegna delle armi”.
Pochi minuti prima, gli uomini nella stanza erano nove. Tra loro, neanche un tedesco, anche se, pur essendo nato a Roma, il padrone di casa è di origini mezze bavaresi e mezze altoatesine. Ma il cardinale Schuster era almeno in apparenza sopra le parti: si era proposto come mediatore per una faccenda da risolvere – una faccenda tutta tra italiani. Perché in quella stanza, a colpi di sibilate nervose, di silenzi e di svelamenti veri o presunti, si è appena consumata una trattativa. O qualcosa del genere. Si sono fronteggiate due diverse idee di Italia: una, quella fascista, che sta irrimediabilmente franando e che sta per prendere la via della fuga in Valtellina, a due passi dalla Svizzera, forse per tentare un’ultima, disperata e feroce, difesa; l’altra che pare avere la vittoria in pugno. Perché, tra ordini di conferma e voci di disdetta, tutti sanno che è l’ora della resa dei conti. Siamo a Milano, alla fine della giornata che segna l’alba di una nuova Italia: sono le 19 e qualche minuto del 25 aprile 1945.

La morsa alleata si sta stringendo sulla Germania nazista e sui fascismi in tutto il continente, Benito Mussolini è appena uscito dalla stanza e il giorno prima è insorta Genova – il segno che tutti aspettavano, il segno che era giunta l’ora della liberazione dal nazifascismo, dopo venti mesi di occupazione nazista e di guerra civile.

All’alba del 24 aprile il Comitato di liberazione nazionale ligure ha deliberato l’insurrezione dopo aver rifiutato di scendere a patti con i tedeschi: “con i nazisti si combatte, non si tratta”, hanno decretato i leader della Resistenza.

Popolo genovese!

Con l’animo pieno di commozione, le tue nuove autorità democratiche ti dicono: Sei libero.

Comportati in queste ore tanto gravi e solenni in modo che tutto il mondo possa dire che tu sei degno di questa libertà.

Viva l’Italia democratica!

Cln Liguria

Le Sap – Squadre di azione patriottica – di fatto si erano attivate la notte precedente, puntando sull’effetto sorpresa, come racconta nel suo diario uno dei capi della Resistenza genovese, uomo di area cattolica e futuro ministro della Repubblica: Paolo Emilio Taviani. Nome di battaglia, comandante Pittaluga. “Alle quattro del mattino i primi colpi di fucile. Subito dopo, le raffiche di mitraglia. Alle cinque, sempre più frequenti, i colpi di cannone e di mortaio. Alle dieci, il palazzo del comune, la questura, le carceri di Marassi, i telefoni sono in mano del popolo in rivolta. Le Sap si sono moltiplicate. Ai predisposti quattro comandi di settore – Sestri Ponente, Val Polcevera, Genova Centro, Albaro Nervi – è un continuo affluire di nuove squadre che, lì per lì, si costituiscono con le armi tolte ai repubblichini”.

Circa tremila uomini delle Sap, a Genova, stanno affrontando le forze nazifasciste di almeno quattro volte superiori, guidate dal generale tedesco Gunther Meinhold. Ma i partigiani sono forti del  fiancheggiamento di molti cittadini. Ben oltre le previsioni.

Per liberare la città c’è bisogno di un’azione coordinata. Ci sono fabbriche da difendere dalle distruzioni dei tedeschi, caserme da occupare per neutralizzare i fascisti, edifici pubblici da conquistare. E serve una svolta che porti una rottura definitiva con il passato fascista, un reale rinnovamento democratico, “dal basso”. L’onda che arriva dalla Liguria parla un nuovo linguaggio: a Genova, Torino e Milano, nel cosiddetto “triangolo industriale”, la posta in gioco è “l’insurrezione perfetta” – è troppo alto il rischio che, nella fuga, i nazifascisti lascino una scia di sangue alle loro spalle. E si vuole provare a mettere gli Alleati di fronte al dato di fatto: l’Italia del Nord si libera da sola.

Il Cln ligure, riunito in permanenza, ha predisposto il sabotaggio delle comunicazioni e il blocco delle vie di fuga – strade e ferrovie – per impedire ai nemici di ripiegare a nord, come hanno già fatto il giorno prima i reparti SS e alcuni dei principali gerarchi fascisti, in direzione Milano: si vuole ostacolare a ogni costo la realizzazione del piano dei nazisti, e cioè di stabilire un’ultima “linea del fronte” sul fiume Po.

E mentre in Piemonte e in Lombardia arrivano le notizie del Cln ligure, proprio a Milano, dove ventisei anni prima nacque il fascismo e che ora è la “capitale” organizzativa della Resistenza, si esige che i fascisti si arrendano senza condizioni.

“C’è poco da trattare: resa e consegna delle armi”.

Il primo a cui si era rivolto il duce, l’uomo che sembra abbia ribadito questa manciata di parole non appena Mussolini ha lasciato la stanza, è il più alto in grado tra i rappresentanti della Resistenza che hanno varcato la soglia dell’Arcivescovado intorno alle 18, per l’incontro con i leader di Salò.

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comando_generale_CVL

Riscriviamo la storia della Resistenza: ovvero come la Resistenza ha fatto la storia

di Carlo Greppi

«Viva i nostri morti: perché essi ci additano il cammino che ancora dobbiamo percorrere. Quando è venuta la vittoria a tutti è apparsa chiara la ragione della nostra lotta; allora si è appreso che l’immane sacrificio non era stato vano, che i caduti non erano morti invano, che non si era marcito invano nelle galere fasciste che erano anche galere regie. La vittoria ci ha procurato qualche cosa che è difficile dire, ha elevato la dignità personale a dignità nazionale ed ha provato, cosa più importante e capitale per noi, che essa è stata ottenuta non per congiure di corridoio ma è stata conquistata dal popolo, attraverso una sua guerra per la liberazione, una guerra di popolo che mi sembra, me lo confermino gli amici storici, la prima della nostra storia nazionale. E questo popolo risanato dà garanzia che saprà difendere un bene che è costato tanto sangue.»

Roma, 13 maggio 1945.
C’è grande commozione al teatro Eliseo, ad ascoltare quello che è forse il primo tentativo di fare la storia della Resistenza. Sul palco c’è Ferruccio Parri, vicecomandante del comando generale del Corpo volontari della libertà (CVL) e destinato a essere il primo Presidente del consiglio dell’Italia liberata. Parri è arrivato nella capitale con Leo Valiani, come lui del Partito d’azione, con l’altro vicecomandante del CVL, il comunista Luigi Longo, e con il loro comandante, il generale Raffaele Cadorna.

Nei decenni successivi gli storici l’avrebbero confermato: una partecipazione volontaria così massiccia era la prima e sarebbe stata l’ultima della storia italiana. Ed era arrivata a liberare l’Italia settentrionale dai nazifascisti, anticipando in molti casi l’arrivo degli Alleati. A Genova, la prima città del “triangolo industriale” a insorgere, il generale tedesco Gunther Meinhold aveva firmato la resa di fronte a un operaio comunista, un caso eclatante nell’Europa occupata. Ma, come già era accaduto dopo le “cinque giornate” della Milano del Risorgimento, nella tarda primavera del 1945 non sono pochi quelli che stanno tentando di salire sul carro dei vincitori. Già nel discorso di Parri, oltre al suo orgoglio discreto, si intravede anche questo:

«Ora per noi, capi del movimento partigiano, questo momento di congedo, il momento di lasciare il nostro posto di combattimento, è il momento più grave, più spiacevole e per tutti i partigiani è un momento di amarezza. È il momento, anche, degli immancabili eroi della sesta giornata, dell’esibizionismo dei più, ché ormai i partigiani, che furono poche centinaia di migliaia, ora si contano a milioni… È andata sempre così… ma speriamo che queste scorie man mano si eliminino.»

I vertici della Resistenza hanno sfilato la settimana prima a Milano, coronando una vittoria che ha portato il partigianato italiano alla Liberazione avendo alla sua testa un comando che rappresentava tutte le forze protagoniste della lotta, cosa che non è accaduta in nessun altro paese europeo.

In vista del comune obiettivo, nei venti mesi della guerra di liberazione anime diversissime avevano imparato a coesistere, realizzando quel miracolo organizzativo e politico che fu la Resistenza. La settimana prima, dalla tribuna milanese, il generale Cadorna – appena nominato capo di Stato maggiore dell’esercito – si era rivolto a tutti i partigiani: comunisti, azionisti, democristiani, autonomi, matteottini. L’unità antifascista faticosamente conquistata era una realtà, ma il futuro democratico già chiamava alla smobilitazione:

«Il tempo eroico è ora trascorso. L’esercito partigiano si riunisce oggi per la sua grande celebrazione che prelude al suo scioglimento. Il cittadino partigiano, lieto del dovere compiuto, lascia il fucile per lo strumento di lavoro; con la sua arma ha cooperato a liberare la Patria, col suo lavoro intende ricostruirla. Ma se le formazioni si sciolgono, lo spirito partigiano non muore: esso guiderà la Patria verso i suoi nuovi destini.»

Questo discorso commosso sarà inserito ne La riscossa, il volume autobiografico di Cadorna che andrà in stampa nel 1948, pochi mesi dopo la pubblicazione di Un popolo alla macchia, libro firmato dal comunista Luigi Longo ma in realtà scritto da un ghost writer, Guglielmo Peirce. I due testi, insieme alle memorie dell’azionista Leo Valiani, sono considerati dagli storici i vertici di una triade che chiude la prima fase della memorialistica resistenziale, seguita dagli scritti di altri indiscussi protagonisti come Pietro Secchia, Edgardo Sogno, Ada Gobetti Marchesini Prospero.

In principio fu la memoria, dunque: i capi della lotta di liberazione provarono a farsi storici di loro stessi, e dell’epica resistenziale. E così fu ancora a lungo. Di fianco all’incalcolabile numero di diari e memorie di varia natura, grandi autori del Novecento – come Elio Vittorini, Italo Calvino, Alba De Céspedes e Renata Viganò – si cimentano fin da subito con la storia della Resistenza, che nel dopoguerra viene in gran parte raccontata ancora da chi l’aveva combattuta. La Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia (1953) rimarrà per molto tempo l’opera di maggior valore, e non è un caso che sia ripubblicata negli anni Sessanta, quando viene data alle stampe anche la Storia dell’Italia partigiana di Giorgio Bocca (1966) e quando la guerra di liberazione diventa lo specchio delle lotte contemporanee, anche in chiave polemica. Le frizioni tra i giovani del Sessantotto infastiditi dal mito della Resistenza e un altro storiografo della guerra di liberazione come Guido Quazza, a Torino, resteranno a lungo nella memoria dei loro protagonisti. Lo storico Claudio Pavone, come Battaglia, Bocca e Quazza anche lui attivo nel partigianato, proprio nel 1968 sottolinea già con forza come della Resistenza sia essenziale raccontare anche le contraddizioni:

«È necessario cioè analizzare, in rapporto alla situazione in cui agivano, tutte le forze operanti in Italia tra il 1943 e il 1945, qualificarle per quello che erano in ogni loro aspetto e sfumatura, restituire a ciascuna la sua fisionomia anche contraddittoria e la sua eredità. Soltanto così la Resistenza sarà ricondotta alle sue dimensioni reali e drammatiche e potrà essere ancora guardata con interesse dai giovani. Senza piangere sulla Resistenza tradita potrebbero in tal modo essere riportate alla luce quelle istanze genuinamente rivoluzionarie che erano in vario modo presenti nella Resistenza e si potrebbe esaminare se e come sia lecito ricollegare ad esse i fermenti più avanzati di oggi.»

È quello che, fin dall’immediato dopoguerra, era stata in grado di fare la letteratura. Come scrive Italo Calvino nella celebre prefazione del 1964 alla riedizione de Il sentiero dei nidi di ragno (1947), il romanzo era stato fin da subito in grado di tradurre sulla carta le luci e le ombre, quella che lui definisce la «primordiale dialettica di morte e felicità» dei protagonisti della vicenda resistenziale, anticipando di decenni riflessioni storiografiche come quelle che sarebbero arrivate con l’imprescindibile libro – proprio di Pavone – Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (1991). Come spesso accade, il romanzo riesce a scavare in profondità, ad andare al cuore delle questioni più complesse. Si pensi al citatissimo monologo del partigiano Kim, che precede di mezzo secolo i furibondi dibattiti sui “ragazzi di Salò”:

«Eppure tu sai che c’è coraggio, che c’è furore anche in loro. È l’offesa della loro vita, il buio della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso […] la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti; degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo».

«Fino a qui tutto bene», per riprendere le parole che il tizio che cade da un palazzo di cinquanta piani ripete a ogni piano per farsi coraggio (un mantra presente nel film L’Odio di Mathieu Kassovitz). Fino a qui tutto bene: fino agli Settanta tutto bene. Ma il vento sta irrimediabilmente cambiando. La capacità di narrare anche i tratti più contraddittori e ambigui della natura umana e, dunque, della guerra di liberazione, diventa presto un’incontrastabile “contro-narrazione” nella quale la Resistenza armata e le sue solide e molteplici matrici ideali iniziano a svanire per fare largo a spin-off di ogni tipo, in uno spazio pubblico spesso colonizzato dalla memoria degli “altri”, dei “ragazzi di Salò”, dei fascisti. Il passaggio tra gli anni Ottanta e la Seconda Repubblica – definito da Alberto Cavaglion quello dei “placidi sonni” della storiografia – lascia ampio spazio alla fortuna pubblica del “revisionismo”, in una dimensione frammentata dentro la quale tuttavia sbocciano anche straordinari atti d’amore per la guerra di liberazione, come il recente La Resistenza perfetta di Giovanni De Luna (2015). Ma, a quanto sembra, non sono bastati: l’idea che sia esistita una narrazione falsa della Resistenza che ha dominato la nostra sfera pubblica, una narrazione da “revisionare” a ogni costo svelando presunte “contro-verità”, prende sempre più piede nel senso comune. Il lungo processo di discredito della Resistenza, al servizio di convergenze di interessi politici-culturali di segno opposto, anche grazie ai media suggerisce una nuova egemonia, come ha recentemente scritto Enrico Manera su “Historia Magistra” riprendendo le riflessioni di Sergio Luzzatto:  «nell’arena dell’uso pubblico della storia sono andati in scena i caricaturali attacchi, di volta in volta feroci e grotteschi, dell’anti-antifascismo, delineando un quadro che è stato definito di post-antifascismo».

La distanza dai fatti narrati è oramai incolmabile, la dimensione epica sfuma nettamente e appaiono nuove urgenze: tolte alcune eccezioni, è totalmente sdoganata la Resistenza come un qualcosa da condannare, da guardare con sarcasmo, come il regno degli eccessi, delle vendette, delle “questioni private” risolte con l’alibi della guerra di liberazione e della guerra civile. È vero che negli ultimi decenni gli storici di professione hanno allargato definitivamente la prospettiva, occupandosi di altri temi altrettanto importanti come il protagonismo femminile, la deportazione e l’internamento militare, la “resistenza civile” (con il lavoro di Anna Bravo su tutti), e le molte “zone grigie” che coesistettero in tutti e in ciascuno, e in questo è stato ancora una volta decisivo il varco aperto da Una guerra civile di Claudio Pavone, un’«opera decisiva per molteplici aspetti, tra i quali non ultimo il fatto che con essa si afferma autorevolmente l’emancipazione della storiografia resistenziale da ogni pratica di autocensura», come ha scritto Santo Peli, uno dei più brillanti storici del panorama contemporaneo, i cui libri sulla Resistenza e sulle sue interpretazioni sono preziosissimi. Era naturale, e lo ha sottolineato ancora Peli: nella lotta di liberazione «la violenza come seduzione e la violenza come dura necessità si scontrarono in modo palese, pur convivendo talvolta nelle stesse persone».

È innegabile, però, che ci sia stato un deragliamento, del quale troviamo tracce ovunque, ormai, e che si sia persa completamente la bussola. All’origine c’è sicuramente anche la diffusa incapacità di proporre narrazioni che siano validate da un uso onesto delle fonti e che allo stesso tempo siano efficaci, coinvolgenti. Per limitarci alla carta stampata, penso allo straordinario romanzo francese del 2010 HHhH di Laurent Binet, un’opera di narrative non-fiction sul coraggioso colpo di mano di due partigiani che nel 1942 portò alla morte della “belva bionda” nazista, Reinhard Heydrich. E allora, tornando al di qua delle Alpi, se i venti mesi dal 1943 al 1945 sono stati – e lo sono stati – qualcosa di unico nella nostra storia nazionale, qualcosa di cui andare realmente fieri, perché c’è stato questo processo di allontanamento?

«Penso che voi ne abbiate già abbastanza di sentir parlare di partigiani, con tutta la retorica che se ne è fatta», diceva Parri al pubblico del teatro Eliseo neanche un mese dopo la Liberazione, dimostrando ancora una volta la sua immensa statura morale, la sua capacità di leggere il proprio presente e, forse, di intuire il futuro. Leo Valiani avrebbe descritto così il vicecomandante del CVL il 10 dicembre del 1981, alla sua orazione funebre:

«Il senno, l’equilibrio, la moderazione, congiunta, però, ad incrollabile fermezza nelle questioni di principio, che caratterizzavano Parri, ne fecero il solo capo della Resistenza che fosse in grado di conciliare le diverse ali del movimento partigiano, le ali comuniste, socialiste, azioniste e quelle liberali, democratico-cristiane, apolitiche ed autonome. Neppure a lui fu facile effettuare la pur necessaria conciliazione, e lo dimostrano i documenti delle polemiche interpartitiche dei primi mesi, ma, alla fine, grazie alla fiducia universale che si meritò, vi riuscì.»

Neanche un mese dopo la vittoria sui nazifascisti Parri non poteva però naturalmente prevedere quello che sarebbe successo poi, lui che già chiedeva conferme agli «amici storici» (come Valiani) non poteva prevedere che avremmo amaramente rimpianto la fase degli storici-protagonisti, che avremmo – soprattutto – rimpianto amaramente loro, figure oramai assenti dal nostro dibattito pubblico, irrimediabilmente viziato dallo sdoganamento delle “ragioni” dei fascisti. Penso in particolare ai tre uomini – Cadorna, Longo e lo stesso Parri – che avevano comandato il braccio armato della Resistenza, il CVL, e in generale agli uomini e alle donne insostituibili che – come scrive Cadorna ne La riscossa – «in omaggio alle proprie convinzioni avevano volontariamente accettato gravi responsabilità e rischi non indifferenti», che erano riusciti a mettere da parte le loro differenze per una comune idea di lotta, per raggiungere l’unità antifascista. E ci erano riusciti.

Febbraio 2018: ci risiamo.

Mentirei se scrivessi che qualcuno è rimasto sorpreso dalle posizioni emerse nel dialogo uscito sul “Corriere della Sera”, tra Aldo Cazzullo e Giampaolo Pansa, uno dei primi responsabili, negli ultimi anni, di questa continua erosione della memoria della lotta partigiana. Nell’articolo quest’ultimo, dopo avere ancora una volta insistito sui dissidi interni alla Resistenza, sostiene che la sua storia vada «riscritta da cima a fondo», gridando ancora una volta al complotto comunista, e chiude dicendo che «tocca ai giovani farlo. Cosa aspettano?». Non c’è molto da ribadire, se non, come ha opportunamente risposto Marcello Flores sulle pagine dello stesso giornale, che l’obiettivo polemico di Pansa «non esiste più da decenni. Ha in mente la narrazione che facevano i comunisti negli anni 50-60, ma sono ormai 40 anni che la storia della Resistenza viene “riscritta”».

Con 25 aprile 1945 (libro uscito in questi giorni con gli Editori Laterza) ho cercato di fare la mia parte, proprio tentando di riportare alla nostra attenzione questi tre uomini straordinari: Cadorna, Longo e Parri. E per fortuna non sono solo. I conti si fanno alla fine, e quello che la mia generazione sarà stata in grado di fare lo vedremo tra qualche decennio. Perché, come ha scritto giustamente David Bidussa in Discutere la Resistenza (in “Italianieuropei”, aprile 2018), il mestiere dello storico consiste nel «portare avanti il testimone della ricerca, non pretendere di dire l’ultima parola. Quello, invece, è il mestiere del demagogo».

Io penso che la migliore risposta a questa continua opera di delegittimazione della Resistenza sia innanzitutto ricominciare a parlarne, ricominciare a vedere l’immensa capacità che ebbero questi uomini e queste donne di mettere in gioco i loro destini per il bene della collettività. Ricominciando dalla radicalità delle istanze che la Resistenza seppe mettere in campo, dai due termini del dilemma – «arrendersi o perire» – che vennero diramati in tutti i modi possibili dai suoi vertici nelle settimane che precedettero l’insurrezione vittoriosa del partigianato. C’era poco da trattare, con i fascisti, se non la loro resa incondizionata. I comandanti della guerra di liberazione – radicali o moderati che fossero –, ad esempio, avrebbero rivendicato per il resto della loro vita come giusta la scelta di giustiziare Mussolini e i gerarchi fascisti che non si arresero, scelta avallata implicitamente e per iscritto giorni prima, e mai rinnegata. E chi ha qualcosa da recriminare se ne faccia una ragione.

Oggi, che il 25 aprile si avvicina ancora una volta, è importante richiamare alla nostra memoria che gli uomini e le donne che hanno liberato il nostro paese dal fascismo, dalla cultura della violenza e della sopraffazione, hanno innanzitutto combattuto. Con le armi, con le parole, e dirigendo politicamente, operativamente e militarmente la guerra di liberazione. Molti caduti li abbiamo ricordati per decenni grazie alle straordinarie Lettere dei condannati a morte della Resistenza (1952) – ora è tempo di ricordare anche chi è sopravvissuto alla guerra e ha provato a “rifare” l’Italia da capo. Senza riuscirci, forse, ma lasciandoci in eredità azioni e parole sulle quali dovremmo meditare, e a fondo.

È ancora Ferruccio Parri, di nuovo al teatro Eliseo di Roma, che quindici anni dopo quel primo tentativo di fare la storia d’Italia, nel 1960, tiene la celebre lezione “Il CLN e la guerra partigiana”. E ci ricorda che abbiamo «il dovere della riaffermazione categorica che la storia d’Italia passa per questa tappa di liberazione» e «che non deve essere adulterata la scelta che fu alla sua origine». E poi aggiunge, rivolto ai giovani di allora, i settantenni e gli ottantenni di oggi:

 «Non è lecito porre tutto il passato, la lotta di liberazione e il fascismo, sullo stesso piano e tutto confondere dentro un minestrone di dimenticanza, primo passo verso altre involuzioni. È su questi principi che non dobbiamo, non intendiamo cedere. La guerra di liberazione è costata all’Italia troppo forse, come una anemia perniciosa. Io che ho avuto la sventura di conoscere i nostri caduti forse più di altri, so bene quello che essi avrebbero contato nella vita dell’Italia di oggi. L’ultimo sguardo di questi nostri martiri è un messaggio, che io vorrei trasmettere a voi, giovani compagni, perché possa arrivare lontano. Nella sua storia è solo in questo momento, solo tra il 1943 ed il 1945, che l’Italia dà quello che ha di meglio. Vi è una carica di energia morale che l’Italia non ha mai avuto nella sua storia, mai. Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»

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Carlo Greppi (Torino, 1982). Storico e scrittore, collabora con Rai Storia come autore e inviato, è membro del comitato scientifico dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” ed è socio fondatore dell’associazione Deina. Ha pubblicato i saggi L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il lager (Donzelli 2012, vincitore del premio “Ettore Gallo”) e Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Feltrinelli 2016) e i romanzi per ragazzi Non restare indietro (Feltrinelli 2016, premio Adei-Wizo 2017, sezione ragazzi) e Bruciare la frontiera (Feltrinelli 2018).

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