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di Stefano Fassina – 4 luglio 2015
Non inizio con i saluti di rito. Non ringrazio nessuno. Non per maleducazione. Ma perché qui non ci sono invitati. Siamo tutti protagonisti. Oggi, sabato 4 luglio, non è soltanto la festa dell’indipendenza degli Stati Uniti. Oggi, noi che abbiamo lasciato il Partito Democratico celebriamo l’indipendenza da una sinistra rassegnata e subalterna, chiusa alla partecipazione attiva degli uomini e delle donne, vincente senza vittoria.
Perché siamo qui, oggi?
Siamo qui perché vogliamo tentare di ricostruire una connessione con tante domande senza risposte dalla politica.
Siamo qui perché sono rimaste senza risposte le domande di uno straordinario movimento di docenti, studenti, personale ausiliario e famiglie impegnate a difendere la libertà di insegnamento e a rilanciare la scuola pubblica.
Siamo qui perché vogliamo dare una risposta alle decine e decine di migliaia di insegnanti precari, qualificati, lasciati fuori dalla scuola dopo anni e anni di insegnamento dalla cosiddetta “riforma”.
Siamo qui perché gli interventi sulle regole del mercato del lavoro fanno arretrare le condizioni di milioni di donne e uomini senza contrastare la precarietà, senza ridurre la giungla dei contratti precari, senza estendere la copertura per la disoccupazione o per i periodi di malattia come denunciano l’Associazione XX Maggio, Acta e le Camere del Lavoro Autonomo e Precario.
Siamo qui perché vogliamo raccogliere le grida di disperazione e rompere il soffocante circuito della solitudine di sciami di piccoli imprenditori.
Siamo qui perché milioni di uomini e donne senza lavoro sono spinte alla povertà, senza reddito o con pensioni misere.
Siamo qui perché è tempo di riconoscere i diritti alle diverse esperienze di amore e di famiglia.
Siamo qui perché siamo un Paese straordinario che spreca i talenti delle generazioni più giovani, senza speranza di futuro o costrette a emigrare.
Siamo qui perché vogliamo sostenere la passione per l’innovazione, per il rischio, insomma, la creatività delle energie migliori del Paese, combattive e vincenti nonostante mille avversità.
Siamo qui per ridefinire lo spazio e gli strumenti dell’intervento pubblico e liberare le potenzialità della rete, come proposto dalle associazioni di “Transizionepossibile”.
Siamo qui per coniugare il dovere dell’accoglienza delle nostre sorelle e dei nostri fratelli costretti a fuggire dalla guerra e dalla fame e il diritto alla sicurezza nelle nostre periferie.
Siamo qui perché vogliamo combattere la “cultura dello scarto” verso l’uomo e verso il creato denunciata da Papà Francesco anche nell’ultima enciclica.
Siamo qui perché la nostra democrazia costituzionale viene piegata da pratiche e interventi di segno plebiscitario e di indebolimento delle garanzie.
Siamo qui perché vogliamo superare la cappa di autorefenzialità della politica chiusa nei Palazzi e nei talk show e riconnettere la rappresentanza istituzionale alla quotidianità delle persone attraverso la partecipazione attiva e consapevole in una forma-partito aperta e plurale.
Le ultime elezioni amministrative, dopo il voto del novembre scorso in Emilia, hanno evidenziato che una parte importante, qualificante, decisiva, del popolo del Pd è stata abbandonata dal Pd. La scuola, dopo la svolta liberista sul lavoro e il segno plebiscitario inferto alla democrazia attraverso l’Italicum e la revisione del Senato, era l’occasione per incominciare a rammendare gli strappi. Invece, con il voto di fiducia sul Ddl scuola al Senato, il Pd ha voluto confermare di riposizionarsi in termini di cultura politica, programma e di interessi rappresentati. Il Pd vuole essere il partito dell’establishment, del big business, di Marchionne e dei banchieri d’affari e, insieme, il partito garante dell’ordine teutonico dell’euro-zona nel sacrificio dell’interesse nazionale, come evidente sulla Grecia dall’appiattimento del governo italiano sulla Cancelliera Merkel.
Chi siamo? Siamo donne e uomini che hanno fondato, costruito e creduto nel Partito Democratico. Sergio Cofferati era uno dei 45 padri e madri del Pd. Monica Gregori ha preso la sua prima tessera di partito al Pd. Siamo donne e uomini che hanno lasciato il Pd. Tra il Pd e il popolo democratico abbandonato dal Pd noi che siamo qui abbiamo scelto il popolo democratico. “Noi” non è un insieme chiuso. È, invece, uno spazio aperto ad accogliere chi ancora nel Pd è impegnato in una riflessione seria, da rispettare, su una scelta di vita oltre che di prospettiva politica.
È stato doloroso lasciare il Pd. Non lo abbiamo fatto per ragioni contingenti, per scarsa sintonia con chi pro-tempore lo dirige e presiede il governo italiano. No, l’abbiamo fatto per ragioni di fondo. Matteo Renzi non è un usurpatore nel Pd. È, invece, l’interprete estremo e il più abile della subalternità culturale e politica della sinistra italiana. Michele Prospero nel suo ultimo libro ha ricostruito il corso de “Il nuovismo realizzato. Dalla Bolognina alla Leopolda”.
Una subalternità culturale lunga approdata nella carta d’identità del Pd: un non-partito, regolato dalla democrazia plebiscitaria dello Statuto e segnato nei cromosomi dall’europeismo liberista del Lingotto, nonostante la presenza, ma ai margini, di culture politiche radicalmente alternative all’imprinting dominante (da Reichlin a Scoppola). Una carta di identità timidamente e parzialmente contraddetta dalla segreteria a-normale, di minoranza, di Pierluigi Bersani.
Abbiamo lasciato il Pd perché non rinunciamo a una grande ambizione. Non cerchiamo passerelle per rimanere in sella. Se avessimo voluto conservare poltrone, avremmo avuto strade facili. Siamo consapevoli dei rischi di derive di testimonianza e minoritarie. Sappiamo bene che la lunga storia della sinistra è lastricata di separazioni inconcludenti. Ma siamo anche convinti che sia possibile evitare di perdersi nei labirinti dei frazionismi. Dobbiamo attrezzarci con una bussola affidabile per navigare in mare aperto e controcorrente. Per affrontare con coraggio intellettuale e politico domande scomode. Domande rimosse. Domande, però, decisive per rianimare la politica.
La Costituzione italiana può essere ancora il nostro programma fondamentale?
In particolare, l’art 1, la “Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, l’art 3, “il pieno sviluppo della persona umana”, l’art 4, “il diritto al lavoro”, possono continuare a essere i punti cardinali della nostra navigazione culturale e politica?
Al di là delle risposte retoriche, possono ancora esserlo, in forme originali, dopo lo smantellamento degli argini ai movimenti di capitali e di cose e il conseguente svuotamento delle democrazie nazionali e la connessa rottura del patto tra capitale e lavoro?
Oppure, il compromesso fondativo del trentennio glorioso, raggiunto a valle del secondo conflitto mondiale, è una parentesi storica irripetibile in quanto inscindibilmente legata ai mercati nazionali, al paradigma fordista e alla minaccia comunista?
A quali condizioni sarebbe possibile ricostruire il patto tra capitale e lavoro?
Il compito storico della sinistra del XXI secolo è ricostruire, anche attraverso il governo, le condizioni per quel patto oppure la sinistra per essere riformista e di governo deve rassegnarsi alla funzione servente di adeguare il welfare e la democrazia alle esigenze assolute del grande capitale economico e finanziario e agli interessi degli Stati nazionali più forti?
Insomma, l’unica modernità possibile è la modernità del capitalismo finanziario senza classi medie, oppure è possibile cimentarsi sul terreno politico a promuovere un neo-umanesimo laburista?
La “crisi antropologica” denunciata da Papa Francesco è una realtà ineluttabile oppure possiamo puntare a rianimare la soggettività politica del lavoro e la dignità della persona?
Le società, le democrazie e le economie del 99% sostanzialmente escluso sono il nostro destino oppure ha senso politico tentare di rifondare le democrazie nazionali delle classi medie?
Siamo arrivati, sebbene con un quarto di secolo di ritardo, alla “fine della storia” sancita da Francis Fukuyama a ridosso del crollo del Muro di Berlino oppure, possiamo sfuggire al pensiero unico e pensare un’altra Storia e immaginare un’altra società?
Infine, l’affidamento della ricostruzione della sovranità democratica alla dimensione europea e, in particolare, all’euro-zona argina oppure aggrava lo svuotamento delle democrazie nazionali e l’arretramento delle società del welfare?
Tali domande sono state accantonate da tanto tempo. La famiglia socialista europea, da almeno tre decenni, le evita. Ha scelto di rinunciare, direbbe Alfredo Reichlin, “alla politica come storia in atto” per imboccare la “Terza via” alla buona amministrazione per conto terzi.
Qui veniamo al nodo politico di fondo. Possiamo costruire un soggetto politico in grado di interpretare in chiave di governo tali domande? Attenzione: la risposta non è scontata.
Per una risposta positiva, va innanzitutto, condivisa l’analisi. Altrimenti, si alimenta l’illusione che sia sufficiente una scissione dal Pd e la riaggregazione di ceto politico spiaggiato per “fare l’alternativa”. Altrimenti, risucchiati dall’anti-politica, si rischia di dare credito alla favola dell’alternativa frutto dell’autosufficienza politica dell’aggregazione sociale.
Negli ultimi tre decenni, abbiamo ambiziosamente puntato a rianimare a scala europea la sovranità democratica perduta a scala nazionale. È stata un tentativo nobile. Ma oggi la drammatica vicenda greca conferma, ultimo esempio, che non ha funzionato. Nella gabbia del mercantilismo liberista dei Trattati europei e dell’euro, abbiamo aggravato gli effetti della globalizzazione de-regolata, invece di mitigarli come ingenuamente speravamo. Abbiamo concorso, spesso inconsapevolmente, aspetto ancora più grave, a realizzare la costituzione liberista europea in radicale contraddizione con la nostra Costituzione e le Costituzioni nate dalla liberazione dell’Europa dai fascismi. Siamo andati a rimorchio del Titanic Europa lungo la rotta insostenibile della svalutazione del lavoro. Da europeisti convinti dobbiamo riconoscerlo: l’euro, voluto inizialmente da Mitterand e Kohl per imbrigliare la Germiania riunificata, si è rivelata una scelta controproducente. Invece di integrare, ha allontanato e messo in contrapposizione i popoli europei. Ha minato l’europeismo dei Padri dell’Europa Unita. Non possiamo continuare a declamare l’Europa del dover essere e gli “Stati Uniti d’Europa”, illusi nonostante le scelte nazionaliste dei governi e la divergenza sempre più ampia delle opinioni pubbliche nazionali. Sono molto preoccupanti le proposte contenute nel documento dei 5 Presidenti per una maggiore integrazione finanziaria e di bilancio e politica. È assente la legittimazione democratica. Vuol dire trasferimento della residua sovranità nazionale al più forte.
Così, arriviamo alla prima grande domanda: è possibile una radicale correzione di rotta nella cultura politica e economica, nei Trattati e nell’agenda europea per evitare il naufragio della moneta unica e la regressione delle democrazie nazionali? Chi invoca l’uscita dall’euro come scorciatoia salvifica, unilaterale, semplice, si trova per lo più nel campo politico a noi contrapposto. Sottostima la portata del problema. Ma noi non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà dei rapporti di forza economici, politici e mediatici a presidio di una moneta unica fattore di svalutazione della democrazia e del lavoro.
Domani, 5 Luglio 2015, è una data storica. Segna uno spartiacque nella vita delle persone e nella politica dell’Unione europea. Non facciamo previsioni sul l’esito del referendum in Grecia, ma un dato è chiaro: Syriza e il Governo Tsipras hanno ridato senso alla democrazia, hanno rimesso in campo l’interesse nazionale di un paese periferico in un quadro dominato dall’interesse nazionale della Germania. Chi ha avuto la pazienza di leggere il Memorandum proposto a Atene ha capito al volo che è impossibile. L’obiettivo del Memorandum è eliminare un governo scomodo, l’unico governo che ha osato alzare la testa per difendere il suo popolo, innanzitutto le fasce sociali più in difficoltà. Nell’euro-zona si scontrano interessi nazionali e interessi sociali. Non si può stare a guardare. Si deve prendere posizione. I partiti della famiglia socialista europea, incluso il Pd, si sono uniti al coro dei conservatori. Hanno, così, confermato subalternità e irrilevanza e chiarito perché oggi le “sinistre popolari”, come Syriza e Podemos, sono nate fuori dall’alveo storico dei movimenti di rappresentanza del lavoro. Il rischio è che il referendum in Grecia segni la conclusione della funzione progressiva svolta dal socialismo europeo nel ‘900.
Noi siamo con il Governo Tsipras e il popolo greco. Domani, con Alfredo D’Attorre e il gruppo dirigente di Sel, saremo a Atene. Non è una gita di classe. È un atto di solidarietà verso il popolo greco e Syriza. Ma è anche un modo per sostenere un’iniziativa utile all’interesse nazionale dell’Italia. In Grecia, domenica può diventare drammaticamente evidente che la democrazia, la politica e la sinistra non hanno fiato nella camicia di forza liberista dell’euro e che nell’euro-zona non c’è alternativa alla svalutazione del lavoro, al rattrappimento delle classi medie, al collasso della partecipazione democratica.
A chi si preoccupa dei contraccolpi per noi in caso di vittoria dei SI, ricordo che le battaglie giuste si fanno anche quando sono a rischio di sconfitta.
Da qui, da ragioni strutturali, fondamentali, ossia fondative, la scelta di ricominciare da capo. Nell’assetto mercantilista dell’eurozona, alternative di governo non sono praticabili. La democrazia diventa un rito vuoto per dare una parvenza di legittimità a scelte compiute da altri e per far sfogare gli spettatori frustrati e rabbiosi dei talk shows. La soggettività politica del lavoro, condizione imprescindibile per il cambiamento progressivo, è impossibile. Il trasformismo è inevitabile. Vi può essere soltanto un partito di governo: nella forma diffusa in Europa di grande coalizione permanente tra conservatori alla guida e socialisti a rimorchio; oppure, dove non c’è una destra di sistema come in Italia, nella forma di Partito Unico della Nazione nell’involucro del PD, deposito impolverato di icone del Pci e di scampoli di popolo ancora affezionato alla “ditta”. Qui e ora, la sinistra moribonda sopravvive come utile simbologia di copertura.
Insomma, il problema non è Matteo Renzi. Il problema sono i fondamentali della politica: la carta d’identità del Pd e la funzione nazionale svolta del Pd nel quadro liberista dell’euro-zona. In tale quadro, si comprende la revisione costituzionale e elettorale finalizzata a produrre governabilità senza contrappesi attraverso il consenso di una minoranza (in particolare, il premio per la maggioranza assoluta dei seggi al primo partito, indipendentemente dalla quota di consenso raggiunta al primo turno): in un sistema economico che marginalizza le classi medie, la politica come amministrazione si può legittimare formalmente soltanto su basi ristrette. In tale quadro, si spiega anche l’intervento regressivo per una scuola pubblica aziendalista e classista.
In tale quadro, è evidente che, oltre il Partito Unico della Nazione, esiste uno spazio naturale per posizioni populiste no-euro in versione nazionalista-forcaiola-xenofoba o confusamente anti-establishment. Ma tale quadro, ecco la questione di fondo, si può forzare per coltivare fuori dal Pd uno spazio politico per una sinistra non minoritaria, non testimoniale, protagonista di una alternativa progressista di governo? Oppure, fuori dal Pd può sopravvivere soltanto una sinistra residuale, anche perché in Italia, a differenza della Grecia e della Spagna, lo spazio politico e elettorale anti-establishment è occupato?
Ripeto: la risposta non è scontata. Anzi, le condizioni per una risposta positiva sono difficili, siamo “senza il vento della storia”, come scrive Franco Cassano. A sinistra prevale un’analisi seria, da riconoscere: la convinzione dell’impossibilità di rimettere in discussione la modernità dominante, i rapporti di forza tra capitale e lavoro, il dominio della finanza internazionale, dei grandi interessi economici e delle loro onnipotenti armi mediatiche. Da qui discende, la scelta “riformista” di praticare l’unico terreno di gioco possibile: le correzioni al margine dall’interno del Partito Unico della Nazione. Vi è pure, nel Pd, in larga parte della classe dirigente più giovane, una convinzione sincera, maturata in assenza di un partito “intellettuale collettivo”, sotto la possente offensiva accademica e mediatica degli ultimi tre decenni, assunta per primi, per tenace volontà di sopravvivenza politica, dai “padri” naufraghi dopo il crollo del Muro di Berlino: la ricetta liberista è necessaria e funziona. Anzi, “il liberismo è di sinistra”. Il problema è lo scarso coraggio avuto dalla sinistra nella somministrazione delle cosiddette “riforme strutturali”.
Noi vogliamo provare. Noi vogliamo raccogliere la sfida per una forza di governo di cambiamento progressivo. Proviamo a discutere poche linee programmatiche. Punti evocativi di un’altra visione di società e di Italia. Non intendo indicare alcuna agenda. Segnalo temi a mio avviso prioritari.
I trattati e la politica economica europea. Più volte abbiamo indicato soluzioni sulla gestione dei debiti pubblici, sulla modifica dello statuto della Bce, sugli eurobonds per finanziare investimenti produttivi, sul controllo dei surplus commerciali. Qui voglio esplicitare due proposte. La prima: rilanciare sul serio, archiviato il virtuale “Piano Juncker”, la domanda, la spesa per investimenti, fuori dalla logica fallimentare del fiscal compact, da abolire insieme alla revisione dell’articolo 81 della nostra Costituzione inserita, con la nostra complicità, durante il Governo Monti.
La seconda: bloccare i negoziati per il TTIP, il trattato di scambi commerciali tra Unione Europea e Stati Uniti. Settimana prossima il Parlamento europeo affronta il dossier. Chiediamo ai componenti di tutti i gruppi parlamentari della sinistra di fermare il TTIP e inviarlo ai parlamenti nazionali per consentire una discussione approfondita, per incominciare a introdurre limiti ai movimenti di capitali e standard sociali e ambientali agli scambi di merci e servizi.
Sul versante interno, decisivo per la ripresa e il lavoro, dopo l’insopportabile propaganda sul “Jobs Act”, è il riavvio della domanda di investimenti attraverso un piano straordinario di piccole opere, immediatamente cantierabili, affidate ai Comuni per interventi contro il dissesto idrogeologico e la riqualificazione delle periferie delle città.
La povertà, l’esclusione sociale, il ricatto di lavori indecenti sono oggi priorità. Come sapete, vi sono tante iniziative in campo per un reddito di dignità, per un reddito di cittadinanza, per un reddito minimo, per il sostegno al l’inclusione attiva. Proviamo a definire una proposta modulare, graduale nella possibile attuazione. Una proposta orientata al lavoro perché il nostro obiettivo deve rimanere, in sintonia con la nostra Costituzione, il lavoro di cittadinanza.
A tal fine, apriamo il cantiere per un intervento articolato, differenziato, per la redistribuzione del tempo di lavoro e per la riorganizzazione della vita. Il modello non sono le 35 ore settimanali uguali per tutti. Ma una pluralità di opzioni per la flessibilità governata dalle esigenze della persona, oltre che dell’impresa. Le ha ricordate Pierre Carniti. Ad esempio, in alternativa alla Cassa Integrazione o alla disoccupazione, i contratti di solidarietà. Ad esempio, l’introduzione di flessibilità nel pensionamento, per evitare altre generazioni di esodati, quando dobbiamo ancora risolvere il problema degli esodati storici. È evidente che sono necessarie risorse dalla fiscalità generale, reperibili in parte da misure assistenziali, per integrare i redditi ridotti dalle riduzioni di orario.
Definiamo una chiara missione di politica industriale per la Cassa Depositi e Prestiti, custode di capitale paziente da orientare, come sollecita Mariana Mazzucato, per la ricerca e l’innovazione strategica, impossibile senza l’intervento pubblico diretto o indiretto. Per produrre ricchezza di alta qualità ambientale e sociale in sinergia con una distribuzione equa.
Avviamo da subito la preparazione di proposte per la Legge di Stabilità. Le emergenze sono tante. Oltre alle priorità ricordate, proviamo a contrastare il sempre più diffuso fenomeno dei working poors. Scriviamo una soluzione definitiva per cancellare l’aumento della insostenibile contribuzione sociale sulle Partite IVA dei professionisti senza cassa iscritti all’Inps e aggiustiamo il forfettone fiscale per i lavoratori autonomi “minimi”.
Mettiamo insieme le competenze e i saperi pratici maturati da tanti movimenti per definire un progetto per fronteggiare razionalmente l’emergenza umanitaria di profughi e migranti. Tante associazioni sono già al lavoro.
Ultimo, ma non per importanza, prendiamo in mano l’iniziativa per i diritti civili. Dopo la svolta storica in Irlanda e negli Stati Uniti, tocca a noi.
In tutti i programmi va prevista una declinazione specifica e a maggiore intensità finanziaria per il Mezzogiorno, la Grecia dell’Italia.Il Mezzogiorno abbandonato non è problema speciale di una parte del nostro territorio. No. E’ “questione nazionale” in quanto vive in forma più acuta problemi comuni a tutto il Paese.
L’iniziativa politica e programmatica va portata avanti attraverso il coinvolgimento attivo dei soggetti interessati e delle rappresentanze economiche e sociali. Non siamo nostalgici dei riti della “Sala Verde”. Ma chi, pur tra mille difficoltà, limiti e contraddizioni rappresenta il lavoro, è parte della soluzione, non parte del problema. Una democrazia dove il “sovversivismo dall’alto” delegittima i corpi intermedi è una democrazia plebiscitaria, quindi al servizio degli interessi più forti. Va, al contrario, incoraggiata l’iniziativa unitaria dei sindacati affinché possano svolgere la funzione generale prevista dalla nostra Costituzione. La nostra Costituzione riconosce i corpi intermedi come linfa vitale per la sussidiarietà orizzontale. Sussidiarietà: una bella parola, ricca di storia e di futuro, spazzata via dal vento centralista, da recuperare.
Insomma, senza voler dettare l’agenda, sono esempi per dare risposte qui e ora, senza distogliere lo sguardo, oltre la siepe della quotidianità, dall’orizzonte del cambiamento radicale progressivo.
Infine, il programma di lavoro. Vogliamo evitare la sindrome di Jep Gambardella, il protagonista de La grande bellezza, “un vuoto in cerca di contenitore”, come lo profila Tony Servillo, suo straordinario interprete. La proposta è uscire da qui senza costruire contenitori. Avviamo, invece, un cammino nei territori, in mille città e municipi. Coinvolgiamo le donne e gli uomini che si sono rifugiate nel l’astensione. Rivolgo loro un appello. Ricominciamo insieme. Venite da protagonisti. Costruiamo, insieme, comitati promotori per la scuola, il lavoro, la democrazia, i diritti civili, per una forma-partito adeguata al contesto sociale, tecnologico, comunicativo dell’inizio del XXI secolo, lo strumento essenziale per aggredire la degenerazione morale delle classi dirigenti della politica. Sono temi fondamentali e fondativi di una forza di cambiamento progressivo. Senza fughe in avanti solitarie e inutili, sono i temi intorno ai quali raccogliere le forze per una campagna referendaria, da valutare e avviare, innanzitutto sulla Legge sulla scuola insieme a chi rappresenta gli insegnanti e gli studenti. Costruiamo insieme spazi di partecipazione attiva, plurale per il protagonismo di ciascuno e ciascuna, per l’incontro di associazioni strutturate o in via di strutturazione, nazionali e locali. Insieme a liste civiche, a movimenti informali, esperienze ecologiste, a organizzazioni espressione di culture politiche antiche ma ancora fertili, eredi della migliore storia del socialismo e del movimento operaio italiano e del cattolicesimo sociale. Sel, da tempo, si è messa generosamente a disposizione per l’avventura unitaria. La ringrazio.
Strutturiamo insieme una “Piattaforma delle idee”, libera dall’insopportabile senso comune liberista per dare voce alle diffuse energie intellettuali fresche, interessate a riannodare i fili tra cultura e politica. Insomma, attraverso i comitati territoriali e attraverso la Piattaforma delle idee, proviamo, insieme a raccogliere le risorse morali, le passioni civili, le energie costruttive, le competenze innovative per la costruzione di un soggetto politico all’altezza delle sfide storiche di fronte a noi. Per dare rappresentanza politica e istituzionale all’universo di domande sociali dimenticate o soffocate nella rassegnazione o nella rabbia o pazientemente tessute dalla “Coalizione sociale”. Lavoriamo insieme, da oggi all’autunno, per verificare disponibilità, per iniziare a edificare, mattone dopo mattone, una cultura politica condivisa, condizione per mettere in rete i nodi territoriali. Poi, incontriamoci, valutiamo insieme come andare avanti in un percorso unitario, senza dirigismi fuori tempo massimo, senza ordini di servizio dall’alto. Il primo possibile banco di prova sono le elezioni amministrative della primavera del 2016. Tante città importanti sono chiamate al voto. Può essere l’occasione per mettere in campo un’offerta unità e riconoscibile di buona politica. Per rivitalizzare sul piano morale, progettuale e di capacità amministrative e guidare alla vittoria l’area del centro-sinistra, oggi debilitata.
Si, è difficile. Si, la strada è in salita. Si, è ambizioso. Si, incontreremo ostacoli, fuori di noi è dentro di noi. Siamo consapevoli dei rischi. Ma siamo profondamente convinti che rassegnarsi alla dittatura del presente sarebbe la vera sconfitta morale e politica. Mi torna in mente spesso in queste settimane, una bellissima canzone della mia adolescenza di Edoardo Bennato: “L’isola che non c’è”, geniale trasposizione della favola di Peter Pan, il ragazzino che non voleva rinunciare a sognare per diventare adulto. Nelle ultime strofe il cantautore napoletano sprona ciascuno di noi a continuare a cercare “l’isola che non c’è” perché, rivela, “chi ci ha rinunciato e ti ride alle spalle, forse è ancora più pazzo di te”. Noi, vogliamo continuare a cercare, a combattere contro i pirati del conformismo, del pensiero unico, della rassegnazione, del cinismo, dell’opportunismo, dell’affarismo politico, del politicismo, dell’indifferenza, della paura.
Insieme, possiamo raggiungere l’isola che non c’è.
Stefano Fassina
4 Luglio, 2015.